QUATTROXQUATTRO #7: 2024
Un'insolita selezione di musica dello scorso anno che vi eravate persi
No, non è la solita lista di dischi da recuperare per fare i fighi con i vostri amici nerd. Il mese scorso il nostro Claudio ci ha raccontato il suo avventuroso 2024, in cui si era imposto l’assurda sfida di ascoltare solo album usciti da gennaio ‘24, senza cedere al richiamo della nostalgia.
Il risultato è un delirante giro di giostra tra noia, ricerca, entusiasmo e confusione, in cui Claudio ci ha raccontato ciò che ha capito di concetti volatili e ambigui come “contemporaneo” in musica. Dato il successo dell’articolo e i tanti riscontri ricevuti abbiamo deciso di approfondire questo versante dell’anno scorso, non un “Best of”, non una lista tematica, né una classifica, ma quattro album che la redazione ha ritenuto interessante approfondire, quattro lavori che probabilmente non avete nemmeno sentito nominare.
Fedeli al principio che se non abbiamo niente da aggiungere a quello che gli altri hanno già detto, anche questo mese ci avventuriamo su lidi poco battuti, storie ancora da raccontare, artisti da scoprire, ma sopratutto nuova musica che vale la pena ascoltare.
Buona lettura.
Una stella per volta
Nel safari attraverso gli ultimi arrivi di Bandcamp la mia attenzione viene catturata da una creatura curiosa che emerge tra le varie copertine. Un papero, o per meglio dire, un pugno in un occhio a forma di papero, visibilmente infastidito, arrabbiato, forse perché l'hanno creato con soli quattro colori ultrasaturi. Non faccio a meno di chiedermi dove questo figlio di Microsoft Paint voglia portarmi. Mi aspetto un collettivo hip hop di ragazzini o magari un punk di seconda mano da centro sociale. Tutto meno che l'effettivo contenuto di “Estrella por Estrella”. Joshua Chuquimia Crampton aveva già messo lo zampino in alcuni lavori della sorella Elysia, più nota come Chuquimamani-Condori. Tra questi spicca l'ormai celebre “DJ E” uscito appena un anno prima e diventato in breve tempo disco di culto su RYM. Ma, numeri alla mano, pochi erano a conoscenza della discografia firmata da Joshua, che già nei primi tre dischi aveva mostrato di essere un musicista ambizioso a cui i limiti del proprio strumento stanno molto stretti. Brani di sola chitarra, che sono partiti con l’essere lunghi soliloqui in forma libera (in “Heart’s Wash”, Puro Fantasìa, 2020), e man mano hanno acquisito coralità e struttura (in “4” e “Profundo amor”, Puro Fantasìa, 2021, 2023). Fino ad approdare a “Estrella por Estrella”, che si colloca a compimento di questo percorso.
Le sue sette tracce (per un totale di appena mezz’ora) sono ancora composizioni per sola chitarra, ma caratterizzate da una fitta stratificazione e un uso massiccio di effettistica, tra cui soprattutto distorsori di vario genere e delay. Se il primo album era dedicato al riverbero, “Estrella” è dedicato all’interferenza, distruttiva ma soprattutto costruttiva. Emerge infatti fin dalle primissime battute la peculiarità della texture, retta su un accatastarsi ragionato di linee di chitarra più o meno distorte, che con le giuste armonie e dissonanze conferiscono al suono qui una qualità più eterea (Now that i Know U, Unifying Force), qui più pastosa (Promised), qui più stridente (Acidito, Eternero). Il delay è invasivo e contribuisce a saturare completamente il mixer, dando la sensazione che in ciò che stiamo sentendo non ci sia spazio per nient’altro. JCC ha fatto sì che tutto ciò non risulti asfissiante per l’ascoltatore, che si ritrova anzi immerso o meglio proprio catturato con l’inganno (la copertina non prometteva niente di tutto questo) in un mondo ricco di dettagli ben distinguibili ma difficili da cogliere tutti assieme.
I riff più distorti sono presi dallo stoner, ma inseriti in una struttura ripetitiva alla Neu vedono la propria funzione completamente snaturata. Ad esempio, il riff di Monster G nel suo habitat naturale sarebbe stato il sottofondo per qualcos’altro, eppure messo in primo piano e ripetuto per decine di volte non riesce davvero a stancare. E sebbene possano essere letti come dei finti crescendo, intrinsecamente insoddisfacenti perché non portano a nulla, direi che a ben vedere si tratti piuttosto di un “moto quasiperiodico” in cui le oscillazioni disomogenee nella texture, nel grado di pienezza del suono, nell’intensità degli effetti e nel feedback del delay rappresentano le effettive variazioni sul tema. È quindi un approccio alla composizione molto suono-centrico, cosa che solitamente non siamo abituati ad associare tanto alla chitarra quanto più ai sintetizzatori.
Nell’adottare tale prospettiva, Joshua finisce per dare vesti sempre nuove allo strumento, confezionando un lavoro in cui l’utilizzo della sola chitarra non sembra una cosa forzata ma perfettamente naturale.
Questa messinscena non è quindi un pretesto per sperimentare sullo strumento e basta, quanto più il risultato di un faticoso lavoro di ricerca durato almeno tre album per ottenere uno specifico suono, al cui servizio c’è proprio lo strumento.
Non è totalmente chiaro di che genere stiamo parlando, se una sorta di neo psichedelia o di post rock, quando magari l’unico motivo per cui lo trattiamo come un disco rock è che ci sia di mezzo la chitarra elettrica. Allo stesso modo (e forse proprio in virtù di ciò) non è affatto chiaro chi sia l’ascoltatore a cui è indirizzato il disco. Ed è quindi anche per questo che le tracce danno tanto la sensazione di durare troppo quanto di durare troppo poco. Queste sono solo alcune delle tante contraddizioni di “Estrella por Estrella”, disco che fa di tutto per sfuggire alle etichette, riflettendo forse la natura del suo autore. A prescindere da ciascuna di queste contraddizioni (o forse proprio grazie ad esse?) una stella per volta Joshua è riuscito a mettere in piedi uno spettacolo unico nel suo genere.
Ciononostante il disco lascia in tutto e per tutto la sensazione di celare ancora tanto potenziale inespresso. Le idee contenute in queste tracce chiedono a gran voce di essere espanse. Ecco, il nostro deve averlo intuito dato che a marzo di quest’anno in duo con la sorella ha pubblicato “Los Thuthanaka”, album che di fatto approfondisce il discorso portato avanti dal Joshua solista e soprattutto integra quello di Elysia, rappresentando senza dubbio un nuovo cruciale snodo nelle loro già brillanti discografie. Ma questa storia forse ce la riserviamo per un altro giorno.
(Claudio Di Biase)
Irossa di sera bel tempo si spera
Uscire dal guscio come lumache nell’umidità dopo la pioggia è un atto di inevitabile coraggio. Nonostante si possa essere esposti ad agenti esogeni pericolosi per la propria sopravvivenza, l’istinto vince sulla ragione e il corpo riconosce che, in fondo, non c’è da aver paura. La timidezza si trasforma in un lento ma crescente adeguamento al mondo, lo stesso che fino a poco prima era così terrificante e inadatto. Probabilmente ai primi sentori di bagnato sono uscite dal sottobosco torinese le irossa che, con il loro album di debutto “Satura”, autoprodotto e uscito il 21 Marzo 2024, si liberano dal guscio di iniziazione per esprimere sapientemente un’autentica creatività, in una scena musicale ormai colma di monotonia.
Giovanissimi sabaudi di sangue, tranne Margherita col sassofono dalle note pugliesi, le irossa si conoscono un paio di anni fa a scuola di musica e trovano fin da subito un’insaziabile affinità sonora, dando vita ad una sentita urgenza dal sapore post-punk agrodolce. Il loro ultimo lavoro è stato interamente autoprodotto nello stile do it yourself che ci piace tanto, giustificati probabilmente dall’eredità underground della Torino dei decenni scorsi, e continuano a farsi strada con estrema umiltà nelle varie e fortuite province italiane. Il giusto approccio per gettare le basi su qualcosa di concreto e in grado di durare nel tempo.
Irossa, che viene accompagnato dall’articolo femminile per scelta sapiente della band, è un nome particolare da scegliere ed ha varie dietrologie e spiegazioni: da quello più goliardico delle birre rosse al baretto sotto casa a quello più poetico che richiama le sinestesie di Rimbaud in Voyelles, in cui il poeta scruta corrispondenze tra colori e vocali, definendo così la “i” come rossa porpora, sangue sputato, risata di belle labbra.
Questo viaggio introspettivo poggia i primi passi nel sentiero ermetico di Al freddo – Intro, un eco vocale di gratitudine che fa da pilot all’intero disco. La delicatezza dell’intro si lega perfettamente alle chitarre noise del climax di Cento Pugni, dove i testi riflessivi contrastano i ritmi angolari e freddi del brano. Fin dalle prime note di questo lavoro di esordio si percepisce sia una sensazione di innocenza che di consapevolezza, soprattutto in pezzi come Dov’è Lei, in cui il dolce suono di un carillon fa da tappeto al resto della strumentazione più vivace e corposa, o come Mille Aghi, dove gli arpeggi si intrecciano alla batteria saltellante e sincopata.
Secchio d’Acqua è forse l’apice intimo dell’album, in cui la voce malinconica boccheggia nel racconto nostalgico e illuso di un ricordo ormai lontano, supportata dall’utilizzo sagace delle chitarre deliziosamente armonizzate.
Leggendo i testi ci si imbatte improvvisamente in un easter egg tra il comico e lo sportivo: Porno Intermezzo è quasi una ballad soul anni novanta che risulta all’ascolto apparentemente vuota di qualsiasi parola, Musixmatch però suggerisce la presenza di una strana lista di nomi che, aguzzando la vista, va a comporre la formazione del Torino Calcio 2023-2034, trovandosi così di fronte ad una piacevole burla di un amore granata nascosto in piena vista. Prima di congedarsi con Satura-Outro, dalle arie distopiche ed elettroniche, le irossa ricordano al mondo la propria vena più istintiva e carnale grazie a Capillari, passando da un post punk alla Maruja ad un bridge reggae più lento e sensuale, per poi scomporsi nuovamente in un frastuono di strumenti.
“Satura” è un insieme di sensazioni divergenti che però accolgono gradevolmente l’ascoltatore in un abbraccio confortante. È il risultato di esigenze viscerali che non hanno ceduto alla irrequietezza del raggiungimento frettoloso dell’obiettivo ma, al contrario, hanno optato per un'espressione responsabile dei propri intenti, risultando giovani sì ma con qualcosa da dire e far sentire. Nonostante il progetto sia ancora a tratti acerbo quindi, la percezione è che la strada intrapresa dalle irossa sia quella consona ad un roseo avvenire. Non ci resta che osservare impazienti gli sviluppi futuri e attendere, di nuovo, la fine della pioggia.
(Giovanni Paladino)
YouTube Recommended Music
È di nuovo mezzanotte. Aggiorno un’ultima volta la pagina di YouTube e, fra una dubbia recensione dell’album del momento e un video essay, la mia attenzione ricade su un video in particolare. Più che il titolo, che alla fine non è altro che un generico “nome dell’artista + nome dell’album”, a colpirmi è la copertina: una foto sbiadita di quella che sembra una stanza da letto, al suo centro un coniglio bianco. Decido di aprirlo. Il video si apre con Dream Radio Introduction, breve introduzione del progetto dove una voce sintetica, che si scoprirà poi appartenere ad un inquietante occhio alato, presenta il programma giornaliero di Dream Radio fm: «Tracce perdute da realtà alternative distanti». Poi un synth solitario, ricoperto dalla stessa patina che sembrava rivestire la foto di copertina, mi da il benvenuto in over the cotton hills., brano che apre “Maybe we’ll hug each other in a past life”.
Quello che ho provato a trasmettervi in queste poche righe introduttive sono le sensazioni che mi hanno accompagnato nella scoperta di uno dei progetti più interessanti usciti nell’ultimo anno. E non si tratta di un’esperienza isolata; il video, pubblicato sul canale YouTube di Rolly Abore il 14 agosto scorso, ad oggi conta oltre duecentomila visualizzazioni, e facendo un giro nei commenti vi imbatterete in decine di ragazzi entusiasti che ringraziano l’algoritmo per avergli fatto scoprire questa gemma lo-fi. In breve tempo questo album è diventato parte di quel calderone di manifestazioni musicali che molti chiamano “youtube recommended music”, ovvero quella musica che, per un motivo o per un altro viene resa celebre dall’algoritmo del sito rosso.
Prima di provare a comprendere in cosa consiste questo fenomeno, è necessario fare un passo indietro, e confrontarci con l’autore di questa musica. Rolly Abore è un giovane musicista rumeno, che da anni pubblica musica sul web sotto vari pseudonimi, tra cui quello di Three Lices and a Molly. I suoi primi lavori, registrati fra il 2019 ed il 2022, sono il risultato un po’ goffo di un adolescente che compie i suoi primi passi nel mondo della musica, senza sapere ancora bene che strada imboccare. Seppur la qualità generale delle canzoni sia un po’ acerba e le ispirazioni siano a volte fin troppo palesi (Neutral Milk Hotel su tutti), alcuni sprazzi anticipano già quei colpi di genio che sbocceranno definitivamente solo in seguito. Molte tracce del suo secondo full lenght “lullabies for the depressed” giocano sull’estetica lo-fi del progetto attraverso il campionamento di suoni di VHS, che negli album successivi diventeranno un simbolo ricorrente. Cocaine left. . ., l’ultima traccia del progetto, è un crescendo dal retrogusto post rock che fa da ponte fra le sonorità di questi lavori giovanili e i successivi.
In “Maybe we’ll hug each other in a past life”, infatti, Abore abbandona quasi del tutto la figura da cantautore dannato che si era costruito nei due dischi precedenti; la chitarra viene messa da parte, così come la voce, che scompare lasciando spazio alla componente strumentale, salvo poi riemergere in brani dalla struttura più classica come please don’t leave. e i’m dead.. In questo album, ascrivibile più alla scena ambient che al bedroom rock, Abore reinterpreta la concezione comune del genere in maniera inedita: come in altre due opere straordinarie rilasciate nello scorso anno, “A Lonely Sinner” di Samlrc e “AM/FM USA” di Phil Geraldi, la musica ambient diventa un pretesto per costruire narrazioni complesse e stratificate nella cultura contemporanea.
Ciò che accomuna questi tre lavori è l’ambizione nel richiedere un ascolto attivo al proprio pubblico, attenzione necessaria per comprendere a pieno le tematiche trattate da questi lavori.
In un criptico post pubblicato sulla bacheca di YouTube del canale, Abore racconta infatti di come la musica di Dream Radio venga estratta direttamente da piccole falle nella realtà, i cosiddetti “spazi liminali”, attraverso un normalissimo cavo USB collegato ad un computer. Questa alienazione viene trasmessa grazie ad una particolare commistione di influenze: se infatti è vero che le suggestioni slowcore ereditate da Duster, Sign Crushes Motorist e I Don’t Like Mirrors costituiscono l’impalcatura compositiva dei brani, sarebbe riduttivo bollare il disco come loro semplice derivazione. Basta ascoltare pezzi come I’ll never forgive you e cry on me forever per rendersi conto della profondità di alcune idee, che sembrano scaturire più dall’ascolto di musiche per film che di dischi canonicamente rock. Proprio come ascoltare una playlist che racchiude la musica consigliata dall’algoritmo YouTube significa immergersi in un universo fatto di musica per videogiochi retro, classici della vaporwave, city pop giapponese e musiche per film anni ‘50; microcosmi distanti che si incontrano solo in questa particolare occasione, così ascoltando questo disco si possono avvertire echi provenienti da quegli stessi mondi.
Sintonizzarsi sulle frequenze di Dream Station vuol dire confrontarsi con spazi liminali, e non è un caso che proprio questo disco sia stato premiato dallo stesso algoritmo con il quale condivide la medesima natura. Di recente Rolly Abore ha lavorato alla musica del videogioco indipendente 7 Days (IC Industries, 2025), e sul suo canale si può trovare la soundtrack scritta per la sua mappa originale di Roblox, a riconferma di come, in un periodo storico in cui la sottile linea che demarca i confini fra i media comincia a scomparire, ad emergere sono quelle produzioni che hanno il coraggio di cancellarla definitivamente.
(Lorenzo Antuori)
I valvassori del big beat
Molto probabilmente il termine “big beat” vi riporta subito agli anni ‘90, a gruppi come The Prodigy e Chemical Brothers, ma in realtà nasce molto tempo prima, in un contesto totalmente slegato. Nelle prime fasi della guerra fredda, le nazioni del blocco sovietico erano molto severe con qualunque cosa potesse riportare a della propaganda culturale americana, e questo includeva anche la musica. Termini come jazz, blues, twist, e soprattutto rock venivano ostracizzati dalle autorità, questo finché nel 1959 un manager polacco di nome Franciszek Walicki usò il termine “big beat” per riferirsi a una delle band che gestiva, ed evitare che questa incorresse nella censura nonostante facessero rock and roll. Negli anni seguenti questa denominazione si diffuse in diversi Paesi del blocco, finché non cadde in disuso negli anni ‘70.
I Marcel Gidote’s Holy Crab sono una band della Repubblica Ceca e si definiscono come un gruppo di «post big beat psichedelica». Sin dal loro esordio nel 2019 ogni album ha mostrato segni crescenti di maturazione e sicurezza, proponendo una sorta di pastiche energico e divertente che prende vari cliché dei generi sopra citati in un modo che risulta sempre fresco e sincero.
In questo percorso “Felvidék” rappresenta una svolta molto particolare e inaspettata. È un disco che spazia attraverso tante atmosfere, passando dal malinconico, al teso, al claustrofobico e anche al divertente, ma presentando sempre una sospensione surreale, quasi onirica. Tutto questo utilizzando sempre gli elementi tipici della big beat (non mancano fraseggi pentatonali e walking bass), ma aggiungendo strumenti elettronici (che prendono il proscenio nei pezzi più alieni e inquietanti) e parti di chitarra più distese. E forse sono proprio queste a dare i momenti più interessanti nel disco, con fraseggi che si rincorrono, si chiudono in sé stessi e si riaprono continuamente, senza prendere mai tregua. Insomma, a prima vista “Felvidék” pare una reinvenzione azzardata per la band, tanto per i contenuti quanto per il loro percorso, anche per il fatto di essere la prima volta che si cimentano in un disco totalmente strumentale. Ma la virata apparentemente brusca dei Marcel Gidote’s Holy Crab appare ben più comprensibile e interessante nel momento in cui si guarda a “Felvidék” come un disco di musica per videogiochi.
L’album infatti nasce per musicare l’omonimo RPG sviluppato da Jozef Pavelka (in arte Brozef) e Vlado Ganaj. Ambientato nell’omonima regione della Slovacchia durante il 1600, il videogioco segue le vicende di Pavol, un cavaliere ex crociato al servizio di un feudatario. Aiutato dallo zelante monaco Matej, dovrà indagare sulla sparizione della sua amata e di varie persone nella zona, affrontando, tra gli altri, ottomani, dissidenti religiosi, cultisti, demoni, magie arcane e il proprio alcolismo.
Felvidék (il gioco) è immerso nell’assurdo, nella sua irrequietudine quanto nella sua commedia, e la musica è un elemento cruciale nel trasmettere queste sensazioni.
Che sia durante una scena di dialogo scherzosa, esplorando delle catacombe, visitando un villaggio o combattendo minacce sconosciute, la musica di Felvidék riesce ad essere adeguata alla situazione mantenendo sempre la distaccata assurdità che permea l’atmosfera del gioco.
I dialoghi arcaici, lo stile grafico grezzo ed espressivo, i personaggi tanto buffi quanto tragici, tutto il comparto estetico del gioco cammina audace su un equilibrio sottile tra comico e tragico, ed è proprio la musica che in diverse occasioni lo fa pendere dalla parte appropriata quando serve, accentuando l’assurdità, la violenza, la solitudine della narrazione e dei personaggi senza mai scadere in una macchietta. Non riesco a immaginare altra musica per accompagnare l’esperienza di Felvidék.
Si potrebbe pensare che un RPG rinascimentale con elementi soprannaturali musicato con un misto di big beat, psichedelia ed elettronica sia un bizzarro anacronismo, ma in realtà ha più ragion d’essere di quanto non sembri. Per chi infatti conosce un po’ il sottobosco dei videogiochi indipendenti non saranno sfuggiti i parallelismi tra Felvidék e Hylics, e non è un caso, dato che lo stesso Brozef ha ammesso di essersi ispirato molto ai due titoli di Mason Lindroth. Sebbene Hylics sia molto più radicalmente surreale, Felvidék presenta un forte senso di mistero e di inspiegabile, un umorismo similmente assurdo e la stessa ricercatezza nello stile grafico. E questo vale anche per la musica, tanto che ascoltandole una accanto all’altra è abbastanza facile trovare delle similitudini.
Ma questo non significa che Felvidék sia derivativo. Dove Hylics si compiace della sua assurdità, Felvidék vaga al suo interno, si perde, prova a riderci sopra, la rifiuta, la combatte, e forse solo alla fine accetta di non poterle sfuggire. È un percorso sì tortuoso, ma anche maledettamente intrigante.
(Luca Firpo)
Grazie come sempre per il passaparola, vi ricordo che la redazione sta attualmente curando un programma radiofonico per Fango Radio: PRESS PLAY, in cui chiacchieriamo di musica per videogiochi. Vi segnaliamo inoltre che il 30 maggio i Marcel Gidote’s Holy Crab hanno rilasciato un nuovo album, a cui Jozef Pavelka ha contribuito con il videoclip per uno dei singoli.