Abbiamo ufficialmente superato il giro di boa di questo laboratorio gratuito di giornalismo musicale, sei numeri in totale dove abbiamo intervistato e approfondito tre etichette dell’underground italiano. Oggi siamo al Sud con Lepers, la settimana scorsa eravamo in Toscana con Bubca, la prossima… saremo a Milano!
Non è facile per un giovane giornalista confrontarsi e dover misurare il proprio giudizio in modo autonomo e utile al lettore. Le parole sembrano sempre poche, per poi finire che erano invece troppe e non si è capito cosa volevi dire. Un laboratorio in questo senso è anche un’occasione speciale per confrontarsi, crescere e sperimentare in un ambiente controllato.
A seguire quattro recensioni che provano a tracciare un percorso, quello di una delle etichette più stravaganti e spontanee del nostro paese, un gioiello che andrebbe ri-scoperto e ammirato nella sua originalità e poliedricità.
Buona lettura e alla prossima,
Giuseppe Di Lorenzo
L’Odissea punk degli Arabia Saudade
Spiagge incantevoli, montagne innevate, rovine storiche di civiltà perdute. Il sud Italia è un posto magnifico. Allo stesso tempo, il sud Italia è un pessimo posto. Poche opportunità di sviluppo personale, mentalità talvolta arretrata, luoghi comuni sulla criminalità che però finiscono per essere veri. Ciò è vero ancor di più per gli artisti, i quali spesso si trovano bloccati in un posto che non valorizza le loro intuizioni e i loro lampi di genio.
Gli Arabia Saudade sono un gruppo che mette le radici in Puglia, a Bari, ma credo che “radici” sia la parola sbagliata per riferirsi alla loro musica e al loro modo di farla. Nell’arco dei loro tre dischi pubblicati per Lepers Produtcions, il tema principale che risalta è quello del viaggio. Il loro protagonista parte dal Medio Oriente per ritrovarsi dall’altra parte del globo in Sud America, scoprendo un'aria più familiare di quanto si aspettasse. Questo viaggio può essere inteso anche sotto una lente autobiografica, in quanto i componenti del gruppo hanno davvero viaggiato per il Sud America durante la composizione del loro ultimo disco, “Estudando a America do Sul”, come i reperti fotografici sul retro della copertina ci dimostrano.
I viaggi di un gruppo di amici con la passione del punk, inteso sia a livello musicale che culturale, nati nel Sud Italia ma cittadini del mondo, inevitabilmente si rispecchiano sul loro modo di fare arte.
È scontato che la musica degli Arabia Saudade sia un melting pot di influenze e sonorità: partendo dalla ripetitività ritmica e dissonanza no wave e dal post-punk anni ’80, gradualmente si includono diverse influenze melodiche derivanti dalla musica popolare brasiliana, dalla cumbia alla vanguarda paulista, riuscendo anche ad includere passaggi di chitarra che potrebbero essere usciti da un disco math rock dei Toe [sic].
“Estudando a America do Sul” (“EAS” d’ora in poi) può benissimo essere considerato il perfezionamento della loro formula sviluppata nei due dischi precedenti, “Americ” e “Le Petit Senegallia/De Volta a Libertade”, split con i Caveiras. “Americ” narra il primo approccio del nostro protagonista all’America del Sud, il Brasile: la produzione è ancora un po’ amatoriale, e forse a causa di limiti tecnici, la chiarezza del suono ne risente e influisce parzialmente sulla qualità di alcune tracce. Nel disco si possono ritrovare tutti gli elementi di EAS, ma sparsi qua e là, passando dalla quasi strumentale Arabica Paulista di principale impronta math rock (come i già citati Toe, ma ricordando anche in parte gruppi come Polvo) alla ballata post-punk di Grande Sucesso, i cui riff sembrano riprendere il garage rock. In “Le Petit Senegallia”, dove il nostro protagonista comincia ad ambientarsi nel nuovo territorio dell’America del Sud, anche il gruppo comincia a metter in ordine un attimo le idee. La formula risulta complessivamente più a fuoco, riuscendo a integrare maggiormente elementi di musica sud-americana, ma anche asiatica (indiana, araba e giapponese) che nel disco precedente sembravano essere un po’ scollegati. Nonostante ciò in entrambi i lavori si sente la mancanza di una identità precisa. Può darsi sia una scelta precisa quella di spaesare l’ascoltatore, ma può anche darsi che sedotti da un favorevole momento creativo, abbiano collezionato tante idee senza cercare una coerenza che le sostenesse.
In “EAS”, però, tutte le influenze presenti vengono amalgamate come se fosse naturale farlo. Il tema del viaggio è ancora più accentuato rispetto agli altri dischi: ogni traccia è dedicata a uno stato dell’America del Sud in cui il nostro protagonista si ritrova a viaggiare dopo il Brasile. I testi, come già accennato, sono traduzioni in portoghese stentate da Google Traduttore e prese da Wikipedia, (da “Venezuela”: «O teatro ayacucho é neobarroco, deixado como desenvolvimento da dominacao da era espanhola») seguendo il concept del disco come un’esplorazione di un posto affascinante ma estraneo, in cui la parola d’ordine è divertimento.
Le melodie dissonanti stile Contortions che si possono trovare in Bolivia, ma anche nelle altre tracce, sembrano un contorno perfetto per le voci, che paiono essere uscite direttamente da “Clara Crocodilo” di Arrigo Barnabè, come se fossero due elementi nati per essere messi insieme. Un altro elemento importante da notare è come la durata media dei pezzi si sia relativamente ridotta rispetto ai lavori precedenti: infatti la traccia che dura di più è Suriname, di ben 2 minuti e 50 (senza considerare Grande Sucesso (Adeus), di cui parleremo dopo). Ciò consente al gruppo di esplorare diverse idee in tutte le tracce senza risultare ripetitivi, prendendo direttamente ispirazione dalla formula dei Minutemen.
L’influenza del gruppo californiano però non si ferma alla durata dei pezzi, ma si può anche ritrovare nelle potenti linee di basso e nel suono preponderante della batteria; Colombia potrebbe essere un pezzo di “Double Nickels on the Dime”, se fosse stato composto un tantino più a sud: il coro Ou Em Maicao che parte verso la parte finale dei 43 secondi della traccia rimane istantaneamente stampato in testa.
Tutte le varie influenze sono trattate con una certa ironia, che però non sfocia nella presa in giro; anzi, esalta le qualità musicali del disco, rendendolo ancora più interessante e coinvolgente.
Un’altra caratteristica peculiare di questo album è nel suo cercare dei compromessi tra le sezioni più dissonanti e quelle melodiche. Ad esempio, in Chile, il groove del basso passa il testimone senza sforzi agli sbilenchi riff di chitarra e viceversa, con i cori delle voci a creare un'atmosfera esotica che risulta familiare senza sfociare nel banale: gli elementi post punk e le melodie di ispirazione brasiliane si congiungono e non si sbilanciano mai in nessuna direzione. Questo tema è ricorrente durante tutto il lavoro, e contribuisce a generare una costante tensione che mantiene l’ascoltatore sull’attenti per l’imprevedibilità di quello che potrebbe succedere dopo.
L’ultima traccia, Grande Sucesso (Adeus), è una triste ballata di addio, ma che mantiene una certa traccia di ironia tipica di tutti i lavori degli Arabia Saudade, specialmente di EAS. Stilisticamente diversa dal resto del disco, risulta comunque piacevole e originale, senza risultare melensa. La tristezza c’è, ma è come quando si guarda indietro su un bellissimo viaggio che si è fatto fra amici: scorgi indietro e rifletti su tutti i ricordi, sperando che un giorno potrai partire di nuovo.
(Daniele Gaudino)
Echi dissonanti: Il noise rock come libera espressione dell’imperfezione
Durante il corso della sua storia, il rock ha inciampato incontro parecchi autori al limite. Syd Barrett, che sotto effetto di LSD immaginava il suo gatto come un’animalesca personificazione di satana (Lucifer Sam), Mark Stewart che con il suo apocalittico “gruppo pop” vomitava proteste umanitarie con lo spirito di un uomo primitivo alla ricerca di cibo (“For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder?”), Will Shatter che aveva sperimentato sui resti del punk e dell’hardcore quella tremenda condizione di tossicodipendenza della scena underground californiana di fine anni ’80 (“Generic”) o il decennio dei ninetines che come diretta conseguenza partorì nichilisti maniacali come Trenz Reznor, che con strofe quali: «God is dead, and no one care, If there is a hell, I'll see you there», aveva utilizzato il rock industriale come un ordigno pronto a far esplodere le proprie paranoie più recondite. Insomma, nel corso della sua breve storia, il rock si è dimostrato una sorta di scuola di reclute per menti impazzite. Sia che si tratti di visioni apocalittiche o di pericolose confessioni personali, la musica dei vecchi teen-ager si è fatta da sempre portavoce di un esercito di reietti urbani pronti a far decollare tutta la loro incapacità di convivere con ideali e comportamenti condivisi dalle società più “normali”.
Non che a noi ascoltatori sia realmente importato se i loro fantasmi personali siano stati esorcizzati alla fine di questo processo, ci è sempre importato godere della visione sterminatrice che questi progetti hanno espresso con poca o grande efficacia. Come alla fine di ogni guerra: si contano le vittime, si analizza quale arma può aver provocato tale distruzione e si scrivono libri per tramandarne la sofferenza. Questa continua convinzione del male a tutti i costi non è mai svanita, anzi continua ad essere molto influente anche nei primi anni 2000 come ci racconta il progetto undeground di Alex De Large.
Alex De Large fa parte della Lepers Productions, etichetta underground pugliese fondata da Giuseppe Laricchia e lo stesso De Large durante il 2005. Come afferma Laricchia stesso all’interno della nostra intervista per la newsletter: «Alexander De Large è stato uno dei fondatori della Lepers. Abbiamo suonato insieme in tantissimi gruppi, come gli Altierjinga Lepers, Bokassà, lui in Superfreak, io in Alexander De Large». Questa label è più di un'etichetta musicale; è un santuario per gli artisti, un luogo dove la creatività è incoraggiata a fiorire senza limiti. Le ispirazioni per i dischi sono fra le più varie: dalle storie personali degli artisti (Superfreak), dalle influenze culturali oltre l’occidente (Arabia Saudade) fino a viaggi interstellari al limite del rumore (Centauri). Merito di Lepers aver lasciato uno spazio di espressione per la visione musicale di ogni artista. Non c’è da sorprendersi quindi se lo stesso De Large abbia optato per una scelta musicale molto vicina alle diramazioni del noise rock più convulso e squilibrato.
Arrivando al disco: “Into your grave” è un viaggio tumultuoso attraverso i confini del noise rock che afferra l'ascoltatore per la gola e non lo lascia respirare fino all'ultima nota. Nonostante il debutto richiami palesemente influenze come Nine Inch Nails, Pink Floyd, Mercury Rev, Pop Group, De Large dimostra di essere molto abile nel creare un caos sonoro controllato che rimarca certamente molti stereotipi, dall’uso del feedback fino alla distorsione della melodia, ma spingendosi eccessivamente ai limiti di essi. L'album si apre subito con una raffica di feedback distorti e delle percussioni incalzanti che preparano immediatamente l'udito per l'esperienza sonora selvaggia che seguirà, In the beginning there was anaesthetic.
Le tracce sono pervase da un’energia grezza e primitiva, con chitarre graffianti, bassi distorti e una batteria che martella con una ferocia implacabile.
Ci sono momenti di pura cacofonia, come quelli di Sinility, in cui si fa fatica anche solo a guardare poco più in là di tutta la nebbia che l'avvolge (forse il pezzo più esteticamente rappresentativo del progetto), fra urla disumane e feedback roventi sembra di ascoltare il Pop Group sotto una cascata di rumore arsenico; ma c’è anche la titletrack Into your grave dove il suono sembra quasi sfuggire al controllo, ed è proprio in questo caos che risiede la bellezza dell'album. Little Cat si snoda attraverso cambiamenti imprevedibili di ritmo e struttura, tenendo l'ascoltatore costantemente sul bordo della propria sedia. È una forma di musica che sfida l'ascoltatore a trovare significato nel disordine, a cercare bellezza nell'inaspettato. La mole di feedback presente nel disco è l’ennesimo tentativo di sfidare il nostro concetto tradizionale di bellezza e armonia nella musica, ci invitano a considerare il valore estetico del rumore e del disordine, elemento decisamente ricorrente nella scena sotterranea.
In maniera non troppo casuale, proprio il noise rock è intrinsecamente legato alla cultura dell'underground e all'indipendenza artistica. Molte band che sono comparse nei primi periodi della nascita di questo filone hanno iniziato nei circuiti DIY, autoproducendo la propria musica e suonando in locali sotterranei prima di guadagnare notorietà, come No Age, Shellac, Pissed Jeans, Lightning Bolt, Unwound, proprio come il nostro artista. Questo spirito ribelle e anticonformista è parte integrante dell'essenza del genere stesso, e ovviamente è possibile ritrovarlo in questo debutto.
Nonostante la sua natura cacofonica e sperimentale, “Into your grave” ha una strana coerenza e coesione che lega l'intero album in un'esperienza sonora intensa e coinvolgente. È un'opera che richiede un ascolto attento e una mente aperta, ma per coloro che sono disposti ad immergersi nel suo tumulto, offre una considerevole sensazione di liberazione dall'ordinario.
(Marcello Mazza)
Nello spazio qualcuno può sentirti urlare
Centauri are the saddest thing in the world.
Un’introduzione al disco nel classico fascino Lepers, etichetta barese che in quasi venti anni di attività ci ha portato dal noise rock più sporco e abrasivo alle esotiche melodie del Sud America. Ogni loro produzione si presenta infatti come un concept imbastito a posteriori, una storia che più che raccontare l’opera si insinua nei suoi interstizi per esaltare alcuni aromi e profumi nascosti.
Nel caso dell’omonimo del 2014 dei Centauri, gruppo di space rock sperimentale formato da Luca Tanzini (alias Tab_Ularasa) Giuseppe Laricchia (Superfreak) e Massimo De Luca, ancor prima di premere play ci aspettiamo una languida storia di rassegnazione. La narrazione intorno a “Centauri” è dopotutto quantomeno drammatica: un’entità non ben definita che lascia la Terra in cerca di nuove avventure, un viaggio che però si rivela molto meno appassionante del previsto e anzi lo condanna ben presto alla deriva nello spazio. Il suo lamento giunge a noi in forma di musica, supera astri, galassie e brucia distanze siderali pur di ritornare sul nostro pianeta ed essere ascoltato.
Per quanto assolutamente segnata da un certo grado di desolazione, la musica della band non si esaurisce tuttavia solo nel suo sconfortante immaginario, e si incarna prima di tutto nella presenza cosmica della chitarra di Tanzini.
Forza prevaricatrice che intesse massicce distorsioni quasi mai al servizio della melodia in un vero e proprio invalicabile muro di suono, Tanzini fa suonare ogni traccia come fosse frutto di una intercettazione radio, un codice nel suo criptarsi, uno spazio che non è l’ennesima landa da conquistare quanto una coperta scura che li avvolge e li deteriora inesorabilmente. Una luce in tal senso è rappresentata dal contributo degli altri musicisti. Il pianoforte di Laricchia è l’elemento che dà al disco la sua anima e voce, un suono acuto e caldo che trova posto nel rumore oberante delle composizioni, col sostegno della chitarra acustica di Massimo De Luca. I due formano come una sorta di ensemble a parte che, pur contrapponendosi alla distorsione, giocano al suo gioco innestandosi su di essa e integrandola a sé. La musica che ne esce fuori è figlia di questa armonia forzata, che si esprime sia in una accesa lotta come nella coda finale di Two Suns, dove ogni strumento si scontra e si calpesta per avere la meglio fino alla fine, sia in un balletto frastagliato come in Speak To Your Dead, dove la dimensione folk a tratti predomina (con l’inclusione anche di una tromba e di una armonica) per poi venire quasi inghiottita da vere e proprie statiche elettriche provenienti dall’amplificatore di Tanzini. Questa tensione continua fornisce all’album un andamento irregolare, un movimento autodistruttivo che si riduce consapevolmente a brandelli e che trova il suo climax nella parte centrale del disco, dove nel giro di cinque minuti si susseguono la rumorosa Alfa Centauri B, l’interludio per pianoforte Proxima Centauri e l’esaltante marcetta di On The Road. Il risultato è quello di fornire un ritmo d’ascolto e una configurazione molto particolare, quasi come se i The Pop Group fossero rimasti sedotti dalla psichedelia folk degli Elephant 6, di gruppi come i Neutral Milk Hotel e i The Olivia Tremor Control, e avessero deciso di reinterpretarla a modo loro.
A brandelli sono anche i testi, fortemente minimali e assemblati alla rinfusa, giusto poche frasi ripetute ad oltranza come echi nello spazio profondo, indecifrabili ma con una sottesa nostalgia del loro pianeta natale.
In Find Me! I Got Lost Laricchia s’innamora viaggiando tra le nebulose con una motocicletta in una peculiare miscela di elementi spaziali e terrestri, e in tutto il disco sono più i riferimenti a oggetti e situazioni quotidiane (treni in ritardo, bottiglie di vino, giornate con troppo sole) che a costellazioni, buchi neri o navicelle spaziali. La nostalgia esplode sul finale, dove in Always The Same la tristezza di vagare da anni senza meta nello spazio prende il sopravvento, scompare la distorsione e, come se udissimo delle voci nella testa, ci si rassegna che qui tra le galassie, citando testualmente: «it’s always the same over and over again».
Insomma, “Centauri” risulta un esordio molto convincente, qualcosa di totalmente inaspettato che si rivela essere di più della somma delle parti coinvolte (il punk fracassone di Tab_Ularasa e il pop sperimentale di Superfreak) e che, nonostante abbia offerto una lucida testimonianza di idee e originalità da parte della band, rimane ad oggi ancora una prova isolata, che ha trovato seguito solamente in uno split coi Dead Horses e nel piccolo EP “Ministero Dello Spazio” una singhiozzante continuazione. Speriamo riescano a tornare sulla Terra al più presto.
(Vincenzo “Notta” Riccardi)
Top text / bottom text
Lepers Produtcions ci ha abituato negli anni ad opere ben studiate e legate con coerenza ed originalità ad immaginari di volta in volta diversi, dai viaggi cosmici dei Centauri a quelli in Sudamerica degli Arabia Saudade. Una delle più grandi qualità dell’etichetta è stata quella di saper costantemente offrire ai propri ascoltatori progetti che indagassero in maniera più o meno seria una determinata tematica, fino a creare una storia. Nel caso di questo “Explain to me your meme”, l’ultimo disco di Giuseppe Laricchia in arte Superfreak, vale a dire il vero deus ex machina dietro la Lepers, l’argomento non potrebbe essere bizzarro: si parla infatti dei meme.
Credo e spero che nell'era dei social network a nessuno dei lettori serva una definizione di meme, e sono altrettanto certo del fatto che a molti di loro (e di noi) sarà capitata quella difficile situazione nella quale la mancanza dei riferimenti adeguati impedisce di cogliere la parte divertente di un meme. Quella che potrebbe sembrare una questione di poca o nulla rilevanza è in verità addirittura argomento di studio nell’ambito della comunicazione ed è proprio proprio per questo che Laricchia si è avvicinato alla lettura di Lexia, una rivista edita dal Centro Interdisciplinare di Ricerca sulla Comunicazione che indaga la semiotica dei meme.
Se l'intento può sembrare ironico, come d’altra parte si può dire di molti altri progetti del catalogo della label, le ambizioni di Laricchia qui sono molto alte.
Circondandosi di svariati musicisti di chiara fama nell’ambiente indipendente italiano, l'artista originario di Bari punta infatti a realizzare il suo disco definitivo, quello che dovrebbe essere il coronamento di anni di carriera di questo piccolo eroe weird nostrano.
Laricchia aveva già dimostrato col precedente “The ancient fish appreciation society” di essere un musicista poliedrico, in grado di coniugare i suoi variegati interessi musicali con una notevole verve melodica. Il tiro qui però si alza, ed il primo pezzo (che alla fine rimane uno dei migliori del lotto), Aluxinante, sfoggia un arrangiamento lussureggiante dove agli improvvisi interventi del sassofono, ora notturni e delicati ora ai limiti della cacofonia no wave di James Chance si somma un gusto melodico luccicante, quasi sixties. Se uno dei riferimenti principali del progetto Superfreak è sempre stato Daniel Johnston, la grandeur di questo album riporta piuttosto all’epoca dei Beach Boys di Pet Sounds.
Fermiamoci un attimo.
Stiamo parlando di arrangiamenti sofisticati e al tempo stesso di qualcosa di strano, disarticolato, volutamente bozzettistico: dov’è il nesso? Il nesso va ricercato nella stessa poetica di Lepers, un’etichetta che è partita dal noise rock fino ad approdare ad un gusto pop sempre più marcato, in continua evoluzione con gli stessi gusti dei suoi membri.
Melodia e rumore, due grandi tópoi del rock alternativo anni '90, coesistono perfettamente nel catalogo della label barese.
I problemi che affliggono l’opera non vanno dunque ricercati in questo particolare blend di generi ed influenze che sembrerebbero inconciliabili, che è anzi lodevole ed in parte anche originale. Essi emergono all'interno dei pezzi stessi, che purtroppo non dimostrano un livello di scrittura commisurato alle ambizioni dell'autore. Gli arrangiamenti sono perfettamente studiati, ma pretendono di mantenere un certo grado di libertà deviando via via il loro corso facendosi travolgere da stimoli diversi; non sempre però riescono a costruire un'impalcatura solida per delle canzoni spesso non esaltanti.
Un ottimo esempio può essere rappresentato in questo senso da Phatic function, forse la traccia più composita dell'album. Partita come una sussurrata nenia ambient pop, come una versione lo-fi di David Sylvian, dopo l’ennesima sfuriata del sassofono evolve prima in una scazzata filastrocca perfettamente in linea con l’indie novantiano per poi sfociare in una sezione alla Violent Femmes e chiudere per l'ennesima volta in maniera altisonante.
Gli stimoli presenti nell’opera sono tanti e tali da non poterla derubricare certamente a superficiale o indolente, ma saltellando dall’omaggio alla musica brasiliana (una delle grandi passioni recenti di Laricchia) di Estrangeiro alle tentazioni math rock (S1 – [(S1 – 0) and (S2 – 0)], invero uno dei pezzi più riusciti dell'intero lavoro ed un tentativo stavolta riuscito di ardita contaminazione stilistica) fino ad arrivare ad alcuni momenti che potrebbero ricordare una versione meno ipnagogica di Ariel Pink, il disco sembra perdere la bussola più volte. Scrivevo di meme all’inizio della recensione, e forse tutti questi salti in avanti ed indietro tra generi e stili vogliono essere parte di questa narrativa goliardica, ironica, della quale Superfreak si fa portatore in questo album.
È forse il disco stesso a voler essere un meme, per quanto perfettamente professionale.
C’è da chiedersi però se la scrittura riesca a esaltare la poliedricità che caratterizza tutto l’album, oppure se diventi il limite dentro il quale il musicista barese fatica a trovare una quadra. La reiterazione di strutture e arrangiamenti valorizzano o castigano le potenzialità espressive di questo album?
Alla fine l’impressione che ci restituisce “Explain to me your meme” è uguale a quella che proviamo quando la pagina che per anni ha pubblicato meme per normie con una formula top text / bottom text prova dal nulla a sporcare le sue creazioni con le ultime tendenze memetiche, scovate negli anfratti internettiani più nascosti: un’impressione di smarrimento e straniamento mista ad un lieve apprezzamento per il coraggio dimostrato.
(Giuseppe Rotundo)
Grazie ancora di averci letto e speriamo di avervi stimolato qualche ascolto inusuale o proposto una prospettiva diversa su un album che avevate già consumato ascolto dopo ascolto. Ci vediamo mercoledì col quinto numero, dalla sempre insonne Milano tra grotte inesplorate, suoni siderali e motivetti a 8 bit. I due numeri finali saranno infatti dedicati al dungeon synth e al collettivo di artisti, produttori e ideologi nati da pochi anni sotto il nome di Heimat Der Katastrophe.
Sappiamo già che sarà di vostro gradimento.