La Newsletter che state scrollando in questo momento è la restituzione finale di un laboratorio di giornalismo musicale in quattro tappe. Al progetto hanno partecipato dieci aspiranti giornalisti da tutta Italia, accumunati dalla curiosità e la passione verso il disastrato settore culturale italiano e il suo racconto. Il laboratorio ha avuto come scopo quello di fornire strumenti di analisi, di scrittura e di ricerca, ma sopratutto una cassetta degli attrezzi contro la superficialità, la sintesi e l’approssimazione. Questa redazione estemporanea ha scelto il taglio degli articoli e la restituzione in forma di newsletter.
Ogni settimana sarà dedicata a una etichetta dell’underground italiano, setacciate da Bari a Milano. Nel numero di mercoledì troverete sempre un’intervista, mentre in quello del venerdì quattro recensioni, provando a costruire un ritratto il più possibile fedele di queste realtà, sperando sia di riferimento sia per chi vorrà approcciarle come fruitore occasionale, sia come appassionato.
In questo primo numero la redazione ha intervistato Luca Tanzini (Tab_Ularasa) e approfondito la storia e i punti salienti della Bubca Records, etichetta toscana che ha segnato un modo di pensare e produrre musica «tutto sbagliato», seguendo come unica regola il principio per cui se puoi farlo fallo adesso, domani è già troppo tardi.
Grazie in anticipo per chi vorrà seguirci in questa breve avventura, la quale se avrà un seguito dipenderà unicamente da questa piccola e scomposta nuova redazione.
Buona prosecuzione,
Giuseppe Di Lorenzo
Luca Tanzini è un tuttofare punk old school, musicista (Tab_Ularasa, Rawwar, Centauri, Alga Alma, ecc.), artista situazionista (Agenzia di Viaggi Interplanetaria), fanzinaro (Merda Zine, Abracadabra Zine, ecc.) e webzinaro (acquanonpotabile). Nasce nel 1970 a San Giovanni Valdarno, in provincia di Arezzo, e si trasferisce a Siena nel 1995, ritrovandosi subito travolto nelle strambe sperimentazioni della piccola scena punk underground senese a cui partecipa attivamente con la sua prima band, gli Ultra Twist. Fonda nel 2007 la Bubca Records, il mezzo adatto per mettere le mani in pasta nella produzione degli artisti più sconosciuti, punk, rumorosi e fastidiosi scovati in giro per il mondo. Abbiamo parlato con Luca di un po’ di cose: dell’origine della sua etichetta, dello stato della critica, dei tempi che cambiano… e di una maschera da sub.
Da cosa è partita la creazione di Bubca? Da che necessità è nata? Perché si chiama così?
Eh, la storia della Bubca Records è molto, molto lunga. All'inizio era un collettivo che non si poteva neanche chiamare “collettivo”. Diciamo che erano delle persone che avevano la stessa passione per la musica, che suonavano e abitavano insieme a Siena in quel periodo e avevano anche un po' di consapevolezza per quanto riguarda il fare le cose, non solo il suonare, ma riuscire a coinvolgere diverse realtà in giro per l’Italia e non. Quel periodo, dal 2005 al 2009 circa, fu bellissimo e irripetibile. Tutto è nato per gioco, capitava spesso di trovare delle persone con interessi e passioni come le tue ed era molto stimolante metterle in pratica. Avevi un gruppo? Facevi un disco. Avevi un'etichetta? Iniziavi a produrre dei gruppi. Noi decidemmo di fare entrambe le cose! Io, in realtà, avevo già un’etichetta per i fatti miei, perché avevo iniziato a suonare musica elettronica sperimentale prima di avvicinarmi al rock e al punk. La chiamammo Bubca perché eravamo in sala prove e uscendo per riposarci da una sessione molto lunga io presi un’asta e feci finta di saltare. In realtà non ci riuscii e caddi per terra. Roberto, che suonava con me, mi disse: «Ah, Bubka!» [Sergej Bubkae, ex astista ucraino NdR]. Togliemmo la K perché in quel periodo andava molto la K ma anche perché la nostra era un’etichetta che non era un’etichetta. Un salto sbagliato a simbolo di una musica sbagliata... era tutto sbagliato ma in realtà funzionava! Era sbagliato da un punto di vista commerciale ma per quanto riguardava la passione e il fare musica con un’attitudine di un certo tipo era giusta.
Il nostro gruppo si chiamava Ultra Twist: facevamo garage punk ma per niente canonico. Io suonavo il Moog, il theremin [uno dei primi sintetizzatori analogici, usato principalmente per fare musica elettronica, NdR], e avevo dei riferimenti prossimi alla musica sperimentale degli anni '70 e precedente, però mi piacevano parecchio il rock e il punk. Erano gli anni di MySpace, il primo social a forte trazione musicale. Con pochi e piccoli passi si scoprivano nuovi gruppi e nuove etichette e ci si entrava in sintonia. Così facemmo varie compilation di gruppi americani. Si chiamavano “Fuck California Dreaming”: c’erano gruppi che facevano il nostro tipo di musica (surf, garage, punk, noise), in piena esplosione in California in quel periodo, soprattutto tra San Francisco e Oakland, gruppi di ragazzini da cui sono nati dei personaggi che poi si sono affermati nel mondo del rock [Charlie & the Moonhearts, Ty Segall, The Traditional Fools ecc. NdR]. Utilizzavamo MySpace per collegare le diverse realtà musicali del periodo. Organizzavamo concerti e festival, ci trovavamo in giro per l'Italia per far festa e usavamo la musica per creare delle piccole collettività: suonare insieme era solo uno strumento per conoscersi e diventare amici. Localmente invece avevamo Radio Facoltà Di Frequenza, la prima radio universitaria senese. Un mio amico, sempre Roberto conduceva un programma chiamato “La Cantina del Rock” , che usammo per far conoscere il lavoro della Bubca Records e tutto ciò che ci ruotava intorno: concerti e interviste, ma anche webzine e fanzine dove segnalavamo tutte le situazioni che ci interessavano in giro per l’Italia.
Funzionava benissimo anche in Europa e negli Stati Uniti, anzi, funzionava così bene che facemmo anche un tour negli USA tutto autoprodotto grazie a MySpace e grazie al lavoro svolto insieme a tante altre persone che ci aiutarono. I gruppi americani che ci hanno ospitato furono gentilissimi, ci abbiamo suonato insieme e hanno distribuito i CD-R delle compilation che gli spedivamo dall’Italia. Usavamo anche la posta: un meccanismo underground che ormai sembra preistoria. C’è anche da dire che la Bubca non è mai stata una vera e propria etichetta, ma in quel periodo avevamo abbastanza seguito nell’underground e ci capitava spesso di spedire i dischi e fanzine in giro per l’Italia, Europa, Inghilterra, Usa e addirittura Australia. Adesso sono rimaste pochissime persone a seguirci, i soliti inossidabili, i quali però hanno scoperto altre priorità e ci seguono con ritmi diversi . Ormai tutto è digitale e il supporto fisico autoprodotto, non patinato, non appassiona più e addirittura viene spesso considerato anche in ambiente underground quasi indice di pressappochismo, anche i punk vogliono andare dentro il MOMA e dentro i libri.
Negli ultimi 15 anni il settore musicale è cambiato totalmente. Già negli anni ‘00 sembrava un mondo completamente diverso rispetto a quello degli anni ‘90, e figuriamoci quello degli anni ‘80! Il supporto fisico però quantomeno ancora un po’ serviva ed era un bel periodo per l’autoproduzione vera, quella dove fai la musica e te la registri in sala prove da solo. Ormai c’è Spotify e il mondo della musica va verso la commercializzazione totale. Addirittura le realtà indipendenti si adattano per non so quale motivo al modello delle piattaforme di streaming on-demand, e sperano che con Spotify la loro musica possa avere un po’ più di seguito.
Bisogna ritornare a un meccanismo di rete più piccolo, più locale.
Ci vorrebbe un social solo per la musica indipendente, ne parlo spesso con alcuni amici della possibilità di realizzarlo ma non abbiamo né i soldi né le possibilità di fare nulla. Non credo tuttavia sarebbe così difficile fare qualcosa di diverso. Il problema maggiore comunque non sono i social network, ma i meccanismi e l’accentramento delle informazioni rendono difficilissimo trovare percorsi diversi da quelli a pagamento e che appaiono nelle “bacheche”. Poi ci sarebbe da fare un discorso troppo profondo sul problema dell’educazione alla creatività quasi completamente assente ovviamente a livello istituzionale ma anche underground.
Nella descrizione di Bandcamp di “Le Aste” mettete l'accento sul “pensare in piccolo”: quanto è importante questo approccio e la spontaneità che emerge da esso nelle tue produzioni artistiche, anche al di là di Bubca? Quando invece ha senso per te “pensare in grande”?
Io credo che ci sia un problema di fondo nell’underground, che non deriva dalle major. Se sei un artista underground devi partire dal basso, da una sala prove, tentare di fare un disco con le tue forze e sperimentare le tue capacità facendo concerti. In Italia, ma sopratutto tour all’estero, per quanto riguarda la musica garage, punk e rock, è sempre più difficile riuscire a fare quei due gradini in più che, non ti dico ti portano a camparci, ma almeno ad avere un’agenzia che si occupi di tutto ciò che ruota intorno alla musica in modo da potersi concentrare solo sul suonarla. E soprattutto, difficile trovare una buona agenzia con cui valga la pena collaborare. Quindi, perché comportarsi come un artista famoso, se sai che con questa musica non ci puoi guadagnare? Non c’è bisogno di adottare un comportamento commerciale se non fai musica commerciale. Per non parlare dei locali, di cui ce ne sono sempre meno dove poter suonare.
Nel disco “Le Aste” suono con una band dopo tanto tempo, i The Sgrollers. Questo è il secondo disco che facciamo insieme e lo abbiamo registrato totalmente da soli. Il primo disco “Ferragosto” era molto lo-fi dato che lo avevamo registrato col cellulare, mentre in questo abbiamo deciso di registrarlo bene ma comunque in una sala prove, non in uno studio! Il disco lo abbiamo chiamato così perché ci mancavano le aste dei microfoni, Riccardo [Zist, NdR] se le era dimenticate, e ci siamo movimentati tutto il tempo per cercarle. Alla fine le abbiamo trovate e siamo riusciti a registrare e mixare in un giorno 13 canzoni, mentre l’indomani l’abbiamo passato a mixare. Per me è un bel disco, e quello che abbiamo scritto su Bandcamp è una sorta di manifesto. Per esempio in un passaggio diciamo che: “Se sei ok compra il disco, se sei ok chiamaci a suonare e pagaci minimo 300 euro, a noi non interessa di venire a fare i clown nel tuo locale, no benefit o 8 x 1000 per nessuno”, che è una sorta di critica all’ambiente dell’underground stile centro sociale, dove se vai a suonare lo devi fare gratis o per supportare una buona causa o per aiutare persone che hanno avuto problemi con la legge. È un atteggiamento che mostra una certa mancanza di rispetto per chi porta avanti una passione in modo concreto, ed è la cosa peggiore che un sistema che si crede alternativo o d’opposizione possa fare.
Qual è il tuo rapporto col giornalismo musicale/ con la critica? Data la tua esperienza con le fanzine e webzine dal basso, credi che abbia ancora senso la critica, sia quella militante che una più affermata? A chi serve di più la critica, ai musicisti o agli ascoltatori?
I musicisti ci sono sempre stati, ma senza produttori, giornalisti e tutti le altre figure che ruotano intorno a chi suona, non esisterebbe la storia della musica.
La crisi culturale investe tutti gli ambienti, non solo quello musicale. Per quanto riguarda il giornalismo, faccio fatica ad avere dei riferimenti per quanto riguarda blog e webzine. Per non parlare dei giornali cartacei! Se si vuole un approfondimento più interessante con un po’ di fortuna si incappa in dei blog tenuti da qualche vero appassionato, ma già scovarli è un’impresa. Il principale problema è la nascita di questo collo di bottiglia/corto circuito dove la musica esce in un attimo e il giorno dopo è già vecchia. In più, le modalità di ascolto sono cambiate e ormai bisogna impegnarsi davvero per fare le recensioni, facendo trasparire in modo vivido quello che si pensa, dando dei riferimenti per approfondire piuttosto che fare il solito paragrafo da compitino penoso. Basta prendere dei vecchi giornali/riviste: per esempio c’erano riviste come “Frigidaire” [rivista culturale italiana di fumetti, rubriche, inchieste giornalistiche, musica e altro andata in stampa dal 1980 al 2008, NdR] e se si leggono le vecchie recensioni sono eccezionali, divertenti e piene anche di stroncature di dischi abbastanza spinte. Spesso alcuni artisti se la prendevano anche male, ma il compito del giornalista è proprio quello di dire quello che pensa. Ormai la prassi vuole che se si parla male di un disco, il gruppo stesso fa partire la gogna mediatica ai danni del giornalista, non solo nel mondo della musica ma nella vita di tutti i giorni. Ci sono alcuni lupi solitari che ancora continuano a farlo per passione e penso che ne valga la pena.
Se potessi portare in Bubca qualsiasi artista in questo momento, chi sarebbe? C’è un artista che ti sei lasciato sfuggire in passato?
Negli ultimi anni purtroppo Bubca si è un po’ fermata, anche perché sono rimasto solo io a portarla avanti. C’è stato un colpo di coda con gli australiani The Chats, di cui abbiamo distribuito i due EP autoprodotti in una compilation, ma da quel momento in poi ho pubblicato quasi solo esclusivamente mie uscite. La missione della Bubca è sempre stata quella di scovare la scintilla creativa quando ancora manca la consapevolezza, quando i membri dei gruppi suonano ancora in modo incerto. Nella storia è sempre stato così e se si ascoltano le prime registrazioni di gruppi poi diventati famosi spesso suonano male, sporche, fuori tempo. Proprio questi primi take tuttavia sono per me quelli più veri, ed è da questi che capisco se un gruppo mi possa piacere oppure no. A Napoli avevo scoperto un duo di ragazze bravissime, le Pi$, che mi ricordavano la musica dei Beat Happening ma fatta da due liceali, per me riuscivano a scrivere canzoni garage pop benissimo. Napoli è una delle poche città dove c’è una bella scena di nuove leve. C’è, Psicosauro!, un progetto 8 bit di un chitarrista che adesso suona anche la chitarra nei Movie Star Junkies e ha tanti altri progetti. A Livorno invece ho incontrato Zist (che suona con me ne “Le Aste”), fa un glam rock ispirato a T-Rex e Velvet Underground, lo trovo molto bravo a scrivere, e soprattutto pieno di passione, curiosità ed umiltà al fare musica. Un altro progetto interessante, sicuramente il più interessante che c’è oggi in Italia per quanto riguarda l’underground, è il duo Dinastia Giulio Claudia (lei di Benevento, lui di Catania). Fanno musica coldwave, con sonorità che richiamano gli anni ‘80, Claudia scrive dei bellissimi testi. Sono l’ultimo progetto che ho sostenuto e prodotto in cassetta. Un gruppo che mi è scappato, per modo di dire, sono stati gli Amyl and The Sniffers, che poi hanno sfondato. Ai tempi della prima cassetta, quando facevano ancora un garage pop da cameretta con influenze shoegaze, li avevo contattati. Lì per lì mi avevano risposto, ma poi hanno trovato il treno giusto per il successo. All’inizio ed il sound era un bel misto tra blues anni 70 e garage rock, con la cantante che stravolgeva un po’ tutto alla Iggy Pop. Adesso fanno un post punk moderno, ma hanno una loro identità e non sembrano uno dei tanti gruppi post-punk che si ispirano agli Idles. Immagino che live siano come agli esordi e sarebbe bello vedere un loro concerto, anche se ora un loro biglietto costa 40/50 euro.
«Senza Aste non si registra un disco, senza Aste i microfoni non stanno in piedi, le Aste sono indispensabili», così si trova scritto nel comunicato stampa del tuo ultimo progetto. Nella prospettiva fortemente DIY che ti contraddistingue, come vedi l’implementazione di strumenti come le intelligenze artificiali nella composizione musicale? Sono aste per il tuo microfono o lo trasformano in qualcos'altro di cui non senti più il controllo?
Sono un po’ ignorante a riguardo, anche se ovviamente so di cosa si tratta. D’altronde vengo da questo campo, ho fatto anche il programmatore per un po’. Un gruppo deve suonare e non far suonare l’intelligenza artificiale, preferisco un sound quanto più umano e personale possibile. Per me la musica è collegata a come ti senti, che umore hai nel momento in cui registri, che periodo stai passando. Registrare è come fare una foto con una Polaroid, viene fuori ciò che sei in quel preciso istante. L’IA può avere senso magari nella fase di post-produzione, oppure per recuperare musica del passato che non possiamo più ascoltare, ma non per creare della musica originale. Forse può essere interessante se non fai rock, se la usi in modo strano o sperimentale, se fai musica elettronica ad esempio. Se fai musica col computer potrebbero uscire fuori delle cose interessanti, sarebbe bello se qualcuno riuscisse a far sua l’IA e programmare per un fine creativo, non solo come abbellimento. Spesso è dagli errori che nascono le cose interessanti, magari da un crash dell’IA viene fuori qualcosa di interessante che non avevi immaginato prima. Oggi invece abbiamo parlato di garage, punk e rock, musica dove devi suonare, ed in questo campo non ritengo che l’IA possa essere interessante; io ovviamente non la userò mai, questo è sicuro.
Per concludere, levaci questa curiosità: In molte delle foto che sono riuscito a trovare su internet ti si vede sempre suonare con una maschera da sub, come mai?
Il discorso della maschera da sub era nato perché in quel periodo storico tutti i gruppi avevano la maschera. Esiste questa corrente della psichedelia occulta italiana (una mezza invenzione da parte di alcuni giornalisti) che ha ripreso in mano la tradizione del folk italiano, collegandolo all’uso dei nuovi strumenti ed estetiche degli anni 2000 provenienti dal Nord Europa che usano i suoni dei droni per creare paesaggi sonori. Molti di questi progetti si mettevano dei mascheroni, simulacri che si ricollegavano a discorsi di esoterismo, come se mettersi una maschera con un riconosciuto valore culturale/antropologico dia da subito l'idea di qualcosa di profondo. Invece io mi misi una maschera della Cressi che trovai ad un mercatino quando vivevo a Milano, un ricordo di quando ero piccolo e andavo al mare.
L'idea era proprio di fare ironia contro chi si prende troppo sul serio quando suona, perché la musica nasce come un'esigenza creativa positiva, solare, dove l'energia negativa viene buttata fuori ed esplode in un meccanismo che la brucia.
Quando suoni ti senti bene e butti fuori quello che hai.. Non solo con la musica, anche con il teatro, lo sport e in tutte le cose che hanno sia una componente mentale che una fisica. Alla lunga diventa tutto solo costume o meccanismo per innescare curiosità finalizzata all’affermazione commerciale di un progetto. In Italia ad esempio i primi I Cani che avevano ripreso a piene mani le idee band sperimentali che usavano dietro le maschere per motivi legati all'attivismo o i Tre Allegri ragazzi Morti, dove le maschere sono ormai inutili perché adesso tutti conoscono la loro facce. L'estetica del “nascondismo” come meccanismo di marketing.
Insomma, da tutta questa riflessione sulla maschera nacque il travestimento di Tab_Ularasa. Oltretutto si appannava dopo neanche 30 secondi quando suonavo in posti piccoli, sia d'inverno che d'estate. Non ci vedevo più niente! Già non so suonare bene, poi la maschera mi permetteva di andare ancora oltre. Io registro tutti i concerti (prima con la macchina fotografica digitale, adesso con il cellulare) per poi riascoltarli e farmi venire nuove idee e molte cose che ho fatto con quella maschera quando non vedevo erano interessanti, mi hanno tirato fuori delle intuizioni per sviluppare altre cose, altre linee di chitarra, altre canzoni. Negli ultimi anni l'ho un po' abbandonata. Ce l'ho ancora, ma solo per le occasioni importanti. A molta gente dispiace che non la indossi più, ultimamente ho suonato a Milano e uno c'è addirittura rimasto male e mi ha detto che mi sono infighettito! È bello cambiare, cambiare sempre, e non parlo solo di estetica. Ora è molto più difficile, più punk, suonare senza maschera. Negli anni dopotutto mi sono evoluto e ho cambiato anche modo di scrivere canzoni. Se lo fai per un periodo va bene, altrimenti se lo fai sempre diventi una specie di macchietta.
Vorrei concludere dicendo alcune cose: se io continuo ancora a fare queste cose con la Bubca, è perché spero sempre di trovare qualcuno di giovane da aiutare. Sono contento perché negli ultimi tempi ho trovato questi ragazzi che suonano ora con me, che stanno sviluppando una loro consapevolezza di autoproduzione. Quindi penso che il mondo dell'autoproduzione abbia un futuro, nonostante le condizioni difficili in cui ci troviamo. In tutti i periodi storici, per quanto riguarda la creatività e la musica, ci sono state delle difficoltà. Questa nostra chiacchierata non deve passare come un “si stava meglio quando si stava peggio”, perché questo sarebbe il messaggio peggiore che possiamo trasmettere. In realtà, se si fanno queste cose, se uno continua a portare avanti un discorso di autoproduzione nella musica, è perché ne vale sempre la pena. Serve per cambiare, seppur in piccolo, il mondo.
Grazie mille per chi è arrivato fin qui, anche solo con lo scrolling, qua non diamo niente per scontato e ti vogliamo bene così come sei caro lettore. Il nostro laboratorio non si ferma a questo appuntamento, ogni settimana usciranno due numeri della nostra newsletter, il mercoledì e il venerdì, fino al 16 febbraio. Sul domani invece, non v’è certezza.
Nel prossimo numero: QUATTROXQUATTRO, quattro recensioni per raccontare Bubca Records!