Suonando con i pedali sulla sabbia: racconti e novelle di Giuseppe Laricchia
Una storia rock ancora da scrivere
Ehilà, benvenuti al terzo numero della nostra fanzine!
Finalmente abbracciamo a pieni polmoni l’odore inebriante delle alghe essiccarsi al sole, il rumore del mare infrangersi negli scogli, quel sole che ti cerca e ti trova in ogni dove. Il Sud è una delle realtà culturali meno rappresentate in assoluto, sia nell’ambiente del giornalismo musicale, ma anche in tutto il resto. Per noi era fondamentale in questo laboratorio di giornalismo musicale raccontarlo questo Sud, questa epopea ai margini dei confini di ogni processo culturale, sociale e politico.
Lo abbiamo fatto con Lepers Productions, di cui nel prossimo numero avrete modo di leggere quattro approfondite recensioni dal loro catalogo poliamoroso.
Grazie ancora per chi ci sta seguendo in questa folle avventura di giornalismo militante.
Buona lettura,
Giuseppe Di Lorenzo
Giuseppe Laricchia è uno di quelli che alla musica continua a dare tutto senza chiedere nulla in cambio. Propinatore di gemme pop con il progetto solista Superfreak, è anche la mente e il braccio che sostengono Lepers Produtcions, una free net label il cui intero catalogo digitale costa (molto!) meno di un caffè. Come ogni barese che si rispetti da qualche anno vive a Milano, e lo abbiamo disturbato per farci raccontare la storia di una delle più eclettiche e divertenti etichette italiane contemporanee, ma anche della sua passione per il Sud America e del suo leggendario festival, il “Sabbia Nelle Mutande Fest”.
Ripensando alla storia di Lepers e guardandola in prospettiva, quanto è stato difficile lanciare un’etichetta e “sopravvivere” nel Sud d’Italia? Quali sono stati gli aspetti negativi e positivi? Sei d’accordo con la percezione generale che l’ambiente artistico e culturale del sud sia fermo e disastrato?
In realtà è stato piuttosto facile aprire un’etichetta, ci eravamo posti come elemento fondamentale quello di realizzare i nostri progetti senza alcun tipo di aspettativa. François-Régis Cambuzat [musicista girovago, presente in moltissimi progetti di musica sperimentale dalla fine degli anni ‘80, NdR] mi diceva sempre: «La cosa che mi piace dell’Italia è che i musicisti non prendono i soldi, i locali fanno schifo, nessuno li ascolta e nonostante questo continuano a suonare! Da noi in Francia sono lì che aspettano i sovvenzionamenti e il più delle volte riescono perfino a finanziarsi. Per cui io, da francese, scelgo l’Italia!», e lo affermava sempre con entusiasmo proprio perché vedeva in noi questa scintilla di follia, di resilienza, che albeggiava nello stato di disperazione totale in cui versavamo e versiamo tutt’oggi.
Lepers nasce come un gruppo rock, gli Altierjinga Lepers, peccato che ognuno dei cinque membri fondatori volesse suonare roba diversa, ragion per cui alla fine ci ritrovammo con sette gruppi. In pratica eravamo già un’etichetta! Decidemmo che non avremmo stampato i dischi, ci sembrava superfluo farlo, tanto valeva mettere tutto gratis in free download. Quando conobbi Luca Tanzini [vedi la scorsa intervista! NdR] ci ritrovammo molto in linea su questa prassi. L’ingresso della Lepers nel mondo della produzione in tal senso è stato anomalo, era il 2004-2005 e avevo ventuno anni, investire nei dischi per noi significava inevitabilmente andare in perdita. Era tutto sbagliato, partendo dal nome “Lepers”, ovvero lebbrosi, e poi anche quel “Productions” scritto male (che rimandava a un errore fatto in occasione di un film che avevamo intenzione di girare). Si accostava bene alla nostra prima musica, registrata malissimo, e rimane ancora oggi un punto saldo della nostra identità.
Nel Sud c’è un grande fermento, ci sono tanti artisti che vorrebbero proporre diverse progettualità, però spesso mancano gli spazi. Io per fortuna vengo da Bari, una città di 400.000 persone con una storia importante alle spalle, grandi band e grandi etichette, e di certo gli spazi non ci mancavano, anche perché non arrivavano gruppi molto importanti. Spesso o eri tu a suonare ai concerti oppure eri tu che li organizzavi. Una delle cose su cui mi sentivo piuttosto sicuro trasferendomi a Milano era che non avrei organizzato più nulla. Mi dicevo: «Qui qualcuno che fa le cose lo trovi!». E invece sono riuscito a farmi immischiare in varie realtà locali, sarà perché sento una certa responsabilità nel fare le cose piccole, marginali, come piacciono a me. Naturalmente è ovvio che, rispetto a Bari, quando organizzi qualcosa a Roma o Milano ci siano delle differenze, soprattutto nel passaparola - dinamica che al Nord mi pare funzioni meglio.
Se un evento simile a “Sabbia nelle Mutande Fest” fosse stato stato organizzato al Nord, oggi avrebbe già avuto un libro a 10 anni dalla sua prima edizione.
A Bari queste cose risaltano meno, c’è meno attenzione (anche mediatica). Un ruolo importante in tal senso anni fa lo rivestivano le radio che facevano critica musicale, specialmente quelle locali, che riuscivano ad avere la giusta risonanza fino a farti suonare nei posti giusti e a guidarti tra gli artisti della scena. A Bari c’è una radio omonima ad una famosa emittente fiorentina (ma con la quale non c’entrava nulla), ovvero Controradio, che organizzava il suo festival in città. Era un evento che poteva durare dalle 24 alle 48 ore, senza interruzioni con band esclusivamente locali, c’era insomma la concreta possibilità di suonare anche alle tre del mattino! Diciamo che con tutti i suoi limiti era un’occasione per poter entrare nel giro, o quantomeno conoscere qualche altra band. Uno dei miei crucci da sempre con l’etichetta era proprio far uscire Lepers dal suo recinto, perché almeno il 90% dei nostri gruppi non aveva spazi dove performare dal vivo, e quelle poche volte che capitava non erano neanche adeguati al loro modo di suonare. Avevamo voglia di conoscere nuova gente, di farci ascoltare, di muoverci.
Bisogna ricordarsi che gli anni ’00 rispetto a ora sono un’altra epoca. Prima di tutto perché c’era più dinamismo culturale, sebbene non mancasse un certo snobismo verso alcune pratiche per noi essenziali: «Voi non stampate CD, quindi non andate bene», o almeno così ci dicevano. Sapevamo che mettere la musica in streaming è un po' come regalare la propria arte, però ora lo fanno tutti, guarda caso. «È come vendere l’anima al diavolo», sì, ma almeno io non davo soldi ad altri. Di tutto questo dibattito ovviamente a me interessava solo l’aspetto musicale.
Dal 2015 al 2017 hai organizzato il “Sabbia Nelle Mutande Fest”. In rete si trova davvero poco, se non qualche video e qualche aneddoto sparso nelle interviste. Ti va, a distanza ormai di qualche anno, di scavare nei tuoi ricordi e fornirci una fotografia più chiara di come tutto è nato, cresciuto e morto? Cosa ha significato per te individualmente e per l’etichetta?
“Sabbia Nelle Mutande Fest” nasce in realtà qualche anno prima del 2015. Due band da fuori, i G.I. Joe e i Nervous Kid, avevano pianificato una tappa in Puglia e noi avremmo dovuto organizzargli un concerto. Insieme a Giovanni dei But God Created Woman decidiamo di farlo presso questa spiaggia soprannominata “Freak Beach”, nella località chiamata Cozze vicino a Polignano a Mare. Sebbene fosse piuttosto imboscata siamo riusciti a raggiungerla in macchina, abbiamo portato le due band e con un generatore e poche luci abbiamo fatto il concerto. Io per l’occasione suonai in duo (Frogwomen & Superfreak). Due anni dopo questa esperienza ci ritroviamo a parlarne entusiasti, e decidemmo che quel posto meritava un suo festival, meglio strutturato, con almeno otto band! Ci eravamo dati delle regole che erano imposte un po’ dal luogo un po’ da noi:
1) Tutti useranno la stessa strumentazione.
2) Non ci saranno soundcheck.
3) Nessun cambio palco.
4) Ma sopratutto: la birra costerà massimo 1€.
Nel frattempo però gli accessi con le auto erano diventati inagibili a causa di alcune casette di campagna che avevano recintato il loro territorio, evidentemente stufi degli spiaggianti che si recavano in quella zona, e questo rese ancora più impervio il montaggio e lo smontaggio oltre che il semplice parcheggiare. Da allora, abbiamo fatto più o meno quattro o cinque edizioni, in un anno addirittura due. Caricavamo a mano un marea di roba da portare tra scogli e fichi d’india, sotto al sole cocente. Finivamo di montare alle 23:30-00:00 e subito partivano i concerti: 6-7 gruppi di fila fino alle 6:00-7:00 di mattina, concludendo il tutto con un bel bagno. Tendenzialmente il bagno finale era anche definito dalle prime luci dell’alba, dato che a buttarsi in acqua al buio tra gli scogli rischiavi di ammazzarti per davvero. Non c’erano delle casse, il suono veniva dagli amplificatori, in più eravamo contenuti da questa micro-pineta che faceva da arena naturale, per cui non davamo fastidio a nessuno.
Prima di scoprire i filari led a basso prezzo dei negozi cinesi, dalla quarta fila in poi eri nel buio totale, se volevi vedere il concerto dovevi piazzarti il più vicino possibile. Era tutto fisicamente molto stremante. Per stare tutti assieme al buio tra i pini, gli scogli e i fichi d’india ci voleva una certa dose di fiducia.
Alla terza edizione venne una marea di gente! Un sacco di persone che però non avevano mica capito cosa stavano andando ad affrontare, c’erano persino delle ragazze vestite di tutto punto col tacco a spillo.Era ancora quel periodo in cui ci tenevamo alla segretezza dell’evento perché non è che fosse (molto) legale, bene o male ai finanzieri non andava di sbattersi sugli scogli a causa nostra e noi gli assicuravamo che al massimo sarebbe passata qualche canna. Considerando che non stavamo arrecando disturbo a nessuno alla fine ci lasciavano in pace. Loro chiudevano un occhio, mentre noi ci assicuravamo di pulire tutto accuratamente la mattina successiva. Fu un fenomeno strano che ebbe a un certo punto un successo incredibile, riuscivi a vedere dei gruppi che magari durante l’anno non si filava nessuno, ma che in quel contesto, tutti insieme, invece avevano un senso. Fra gli altri ci ha anche suonato Luca Tanzini, sia da solista che con i Duodenum. Ci sono tanti gruppi che sono esistiti solo per “Sabbie Nelle Mutande”. Facevamo tutti generi molto diversi ma con poche menate, suonavamo con i pedali nella sabbia, e una volta facendo passare il cantato da una cassa voce morta all’amplificatore del basso.
Non abbiamo mai avuto la velleità di ingrandirci, non potendo e non essendo molto corretto anche per il luogo che ignaro ci ospitava. All'epoca non era fra i miei pensieri quello di fare l'ecologista che si batte per la natura, ma in generale volevamo che la gente il giorno dopo potesse godersi la spiaggia libera in santa pace. Sono felicissimo che sia finita. Finita poi nella maniera più classica: man mano hanno bloccato tutto e murato ogni cosa per crearci un resort o un parco naturale. Potremmo aver chiesto a dei nostri amici se c’era modo di superare le barre di cemento o di rimuoverle temporaneamente, e forse ricevendo come risposta che l’unico modo realistico per toglierle sarebbe stato farle esplodere! In tal caso lì avremmo desistito. Gli ultimi due anni li ho fatti che già vivevo a Milano, eppure non mi è mai pesato un attimo. Alla fine però sono belle le cose che finiscono.
Mettendo da parte “Sabbia”, in merito alle esibizioni dal vivo in generale c'è un aspetto interessante da evidenziare: spesso ci si lamenta che ai concerti partecipano solo altri artisti, ma per me l'aspetto sociale della musica è sempre la parte che apprezzo di più in assoluto. A "Sabbia Nelle Mutande" ho conosciuto i Caveiras, con i quali successivamente ho collaborato per un album. A Milano, le persone con cui uscivo inizialmente erano le stesse con cui avevo organizzato concerti a Bari. Alla fine se ci pensate bene il minimo comune multiplo tra coloro che fanno musica è l’ego. Solo il fatto che qualcuno pretenda che le proprie esperienze siano di interesse per gli altri richiede un ego considerevole. Forse, arrivato a trent'anni, ho realizzato quanto mi piaccia questa dimensione sociale. La musica diventa un mezzo per comunicare con certe persone, per carpire da loro aspetti che nell'ordinario non emergerebbero, offrendo la possibilità di vivere le visioni o i pensieri di chi ci circonda.
Qual è il tuo rapporto col giornalismo musicale e con la critica? A chi serve di più, ai musicisti o agli ascoltatori?
Quando ho iniziato a suonare non leggevo la critica, ho sempre solo ascoltato i consigli di amici o di persone di fiducia. La critica musicale l'ho scoperta nel momento in cui ho cominciato a concretizzare le mie idee fondando un’etichetta, e negli anni il mio interesse è sicuramente aumentato. Ad esempio leggo Federico Savini su “Blow Up”, e anche quando consiglia cose che tendenzialmente non mi piacciono cerco di dare sempre un ascolto alle sue raccomandazioni, perché apprezzo il suo approccio alla ricerca e condivido alcune delle sue fissazioni, come il noise giapponese e il Brasile. Esiste un parallelo con la politica in questo senso, perché di solito si tende a votare la persona, non il partito, allo stesso modo credo che si comprino le riviste perché si segue un dato critico (o almeno io lo faccio!). Un critico può anche scrivere di un gruppo che personalmente non mi suscita nulla, ma se ho imparato a fidarmi del suo giudizio mi invoglia comunque a dare un altro ascolto - anche se eventualmente dovessi confermare il mio disinteresse.
Ormai abbiamo mille opzioni tra cui scegliere, compreso Bandcamp, dove tutto è disponibile e la scelta è incredibilmente illimitata, ma i consigli d’ascolto dati da un vecchio amico per me hanno una marcia in più. Poi i due concetti spesso si mescolano, perché le persone che recensiscono vengono ai concerti, le conosci e quindi negli anni è diventato un ibrido: lo ascolto, lo seguo e so anche chi è. In ambito locale ha una certa rilevanza avere contatti e ed essere presente nella scena. Io, ad esempio, quando leggo una rivista, trovo tutti i nomi che mi sembrano interessanti, mi metto al pc e li ascolto. È un vero e proprio lavoro. Chiaro che ci deve essere da parte dell'ascoltatore un interesse a scoprire altre cose, perché a essere pigri non ci vuole niente: c'è Spotify che ti fa le playlist di 15 minuti per lavorare, per rilassarti o per tagliarti le unghie. Poi accade anche che, nella marea di nomi contemporanei, se inizio a vederne uno che viene citato abbastanza spesso allora lo ascolto anch'io, giusto per curiosità, a prescindere che arrivi da un canale che ritengo di fiducia, dal consiglio di un amico oppure semplicemente da qualcuno che seguo per le recensioni, indipendentemente che questo si esprima tramite una rivista, un video su Instagram ecc.
Ascoltando gli album del catalogo Lepers si nota una netta evoluzione nella proposta complessiva. Nei primi lavori emerge una propensione verso il noise rock (Alexander De Large, Offman), mentre negli ultimi anni melodie e arrangiamenti piuttosto inusuali (fortemente influenzati in particolare dalla musica sudamericana) hanno caratterizzato molte uscite. A cosa è dovuto questo cambiamento? Scelta di mercato o sono semplicemente cambiati i tuoi gusti e i tuoi riferimenti musicali?
Sono tanti fattori: in primis sono passati 10 anni da quando abbiamo iniziato; se non cambiavamo, sai che palle? All'inizio del progetto eravamo in cinque, ora sono solo. Avevo diverse influenze che ora non ci sono più. Alexander De Large è stato uno dei fondatori della Lepers. Abbiamo suonato insieme in tantissimi gruppi, come gli Altierjinga Lepers, Bokassà, così come lui ha suonato in Superfreak e io negli Alexander De Large. Poi piano piano sono nati tanti problemi relativi alla crescita e al lavoro, assieme ai tanti altri impegni, e così da cinque che eravamo poi rimasi solo io ad occuparmi dell’etichetta. Niente di strano, sono anche arrivati aiuti saltuari, e comunque molte persone sono state fondamentali per certi passaggi, ad esempio, senza Frogwomen o Turbo, “Sabbia Nelle Mutande” non si sarebbe mai potuto fare. La svolta è arrivata quando un pochino abbiamo imparato a suonare meglio col passare degli anni, rispetto agli albori: pensate, il primo disco di Superfreak è nato semplicemente perché mi hanno prestato una chitarra, e per questo ho iniziato a scrivere canzoni su canzoni con quella chitarra. Solo dopo Superfreak si è evoluto, ha iniziato ad esibirsi live, è diventato gruppo, è diventato qualcos’altro.
Le influenze del Sud America arrivano dalle mie preferenze degli ultimi 7 anni. Ho letto, a proposito di critica, il libro “Verità Tropicale” di Caetano Veloso. Prima conoscevo solo gruppi noti come i Sepultura, Os Mutantes ecc. Però poi ho letto quel libro e mi è venuta una voglia matta di ascoltare di più. Da lì mi si è aperto un mondo. Fu Wolfman Bob (Roberto Colella) che suonava tra l'altro con Luca Tanzini negli Ultra Twist a consigliarmelo, e da lì sono andato a ruota.
Ho iniziato ad ascoltare tutto il tropicalismo, in particolare Tom Zé. Credo che “Estudiando o Samba” sia uno degli album più belli della storia.
A furia di ascoltarla, questa musica è entrata inevitabilmente in quello che che suono. Ovviamente non ho quella competenza che hanno i brasiliani nel saper fare la batida, però ho iniziato ad ascoltare roba che prima snobbavo. Se mi avessero chiesto della bossa nova avrei risposto che, secondo me era schifezza, mentre ora con João Gilberto impazzisco. Credo sia una cosa squisitamente mia o di gruppi in cui ho suonato. Poi riguarda anche la selezione, perché questa passione per il Brasile mi ha fatto ascoltare, ad esempio, “Cronópio?” di Irmão Victor, che è uscito per Lepers. Magari prima eravamo in un giro più noise, Nando degli Offman ha fondato i Maybe I’m che erano un gruppo più blues, mentre ora con i Broncos, che sono usciti da qualche giorno, fanno più punk rock. Da tempo però, l'interesse verso queste cose mi ha spostato la mia attenzione anche nel chi coinvolgere nell’etichetta, perché alla fine siamo sempre io e i miei amici al centro, ma allo stesso tempo abbiamo sempre cercato di tirare dentro delle persone con cui avevamo delle affinità, spesso con un approccio musicale anche molto diverso dal nostro. Penso ai Bread Pitt o I Selvaggi del Borneo, tutti gruppi che giravano in altri ambienti con i quali però ci siamo riconosciuti, decidendo di coinvolgerli e includerli nella nostra famiglia. Si può dire quindi che un’evoluzione ci sia stata, è emersa la necessità di avere qualcosa di più definito tra le mani, perché con l’età inizi ad apprezzare le cose semplici. Per rispondere in poche parole: è perché sto diventando vecchio.
Ho notato che diversi artisti Lepers tracciano una dimensione narrativa intorno al loro disco. Per esempio, gli Arabia Saudade portano avanti una specie di storia con questo protagonista Arabo che viaggia in giro per il mondo, mentre i Centauri sostengono di fare musica proveniente da un tempo perduto aggirandosi senza meta tra le galassie. Questa spinta alla narrazione è un marchio Lepers supervisionato da te o una sensazione comune degli artisti nel sentirsi “fuori” dal mondo reale?
Un po’ entrambe le cose. Parte tutto dall’inizio, quando abbiamo cominciato a darci dei nomignoli (io ho scelto un nome orrendo che è Superfreak, me lo sono dato da solo quando ero piccolo). Quando si organizzavano i concerti avevo bisogno di descrivere i gruppi e mi divertivo molto a inventare delle storie, tanto che quest'abitudine sarebbe poi diventata il mio lavoro, dato che oggi faccio il copywriter e lavoro nella pubblicità. In pratiche le descrizioni degli album le trasformavo in storielle, riservandomi di scriverle per tutti i gruppi che sbarcavano in Lepers. Si può dire che il creare un piccolo immaginario intorno ai propri dischi sia diventato un tratto distintivo dell'etichetta. Diversi giornalisti si sono lamentati dicendo cose come: «Non si sa niente dei gruppi della Lepers», ed è vero! Pur avendo una carriera lavorativa nel marketing non ho applicato nulla di quello che sapevo all’etichetta, con un approccio che rasentava il disastro totale. Per me invece resta un tratto distintivo che trasporta l’ascoltatore già nel mood della musica che ascolterà. Con gli Arabia Saudade abbiamo iniziato dopo aver sentito una compilation di musica rock persiana e volevamo virare verso quelle sonorità, col tempo però abbiamo preso altre direzioni. A me venne la fissazione di cantare in portoghese, al punto che avrei voluto studiarlo, anche se alla fine ho rinunciato traducendo tutto con Google Translate. Io e gli altri ci chiedemmo: «Perché il personaggio parla questo portoghese così strano?», e la risposta fu: «Non è brasiliano, viene dall’Arabia!». È un filo conduttore per immaginare testi diversi, che almeno a me vengono più immediati e sensati. All’inzio avevo un approccio un po’ intimista, ma alla fine mi stavo nascondendo, adesso con queste storie stravaganti riesco a esprimermi con più libertà. Questo aspetto c’era da subito, fin da quando abbiamo fatto l’album "Fresh Scum for Castenado". Era il disco a tema pirati, e così tutti i pezzi sono cantati in un inglese sbagliatissimo proprio perché eravamo pirati e quindi non lo avremmo dovuto conoscere molto bene. Secondo me è un tratto, anzi il tratto che unifica tutta la Lepers.
E’ una sorta di sceneggiatura al film “Lepers”?
Esatto! Dicevamo sempre di avere aperto un’etichetta musicale perché volevamo fare film, ma dato che fare film costa troppo, facciamo gli album!
Dopo la pubblicazione di "Explain to your meme" è migliorata la tua comprensione dei meme? Qual è il tuo meme preferito?
Sì, è migliorata. Ho studiato, sono entrato in vari canali Telegram e frequento delle chat in cui si parla solo di meme. Quindi adesso sono anch'io uno di voi! Riguardo ai miei meme preferiti: mi piacciono molto quelli in cui ci sono nove foto e tu devi dire quella in cui ti rivedi di più, oppure quelli in cui ci sono due foto che sembrano uguali, ad esempio: il tipo abbronzato e il divano di pelle. Mi piacciono anche i meme filosofici e poi tutti i meme con un granchio. Sono finito in dei canali di meme cileni di cui non capisco niente, ma tramite i quali comprendo un po’ le vicende di attualità del paese. Usano un sacco gli anime, di cui io non sono un gran fan, ma mi sto approcciando alla cosa grazie ad una collega a lavoro per capirci qualche cosa. Quel mondo mi è ancora oscuro, non so neanche se mi piace!
Per concludere, ci diresti tre dischi sudamericani dell’anno passato che ti sono piaciuti e che ci consiglieresti?
Il 2023 è un anno in cui, avendo avuto un’altra bambina, non ho ascoltato tantissimo se non pianti! Mi viene in mente "As Palavras, Vol, 1&2" di Rubel, un disco pop con all'interno anche MC Carol (una trapper brasiliana). Un album dall'equilibrio incredibile, che ha mille cose strane che però sono molto dritte, molto moderne, sicuramente il mio preferito del 2023. Invece un album che ho apprezzato molto del 2021 è “Erosão” di Maria Portugal, la batterista dei Quartabe che è estremamente intrigante anche per le sue infiltrazioni elettroniche e noise. Purtroppo a questo tipo di scene non ci arrivi se non sei dentro certi circoli in cui girano per segnalazione. Per darvi delle coordinate, Negro Leo è un artista che fatto dischi molto diversi, alcuni in cui sembra Connan Mockasin, altri in cui sembra un misto fra l'elettronica e la musica degli anni ‘70. Nel 2020 ha fatto uscire “Desejo de lacrar”, che è bellissimo. La sua compagna, Ava Rocha, che propone canzoni dalla struttura più classica, nel 2023 ha fatto uscire “Nektar” che è un bel disco - ma il precedente “Trança” rimane secondo me il suo migliore. Come non citare gli stessi Quartabe, che Madlib ha anche campionato in “Sound Ancestors”, sono un gruppo avant-jazz ed erano la band di supporto di Arrigo Barnabè, però poi si sono staccati ed hanno fatto dei lavori interessantissimi come “Lição #1: Moacir” e “Lição #2: Dorival”. È un mondo molto interessante e in fermento che non cessa mai di rivendicare le proprie radici brasiliane. In Italia non abbiamo questo senso di appartenenza, non riusciamo a “sembrare italiani” senza risultare macchiettistici o ridicoli. Invece loro rendono riconoscibile quella componente, e penso sia evidente nonostante io vi abbia segnalato progetti tra loro molto diversi. Su Youtube c'è un programma chiamato Cultura Livre, una sorta di Tiny Desk brasiliano, dove sono passati tanti di questi gruppi e altri come Thiago Nassif o gli O Terno. Chi conduce quel tipo di trasmissione cura davvero bene la selezione e ciò che ne esce fuori è davvero una scena attiva e dalla forte identità. Probabilmente non andrò mai in Brasile, perché so già che ci rimarrei male, e che non sarebbe bello come me lo immagino. Cultura Livre è davvero un’ottima trasmissione, mi piacerebbe avere una cosa così anche per paesi come l’Italia, la Germania o la Francia per scoprire mondi che non conosco.
Grazie mille per chi è arrivato fin qui, anche solo con lo scrolling, qua non diamo niente per scontato e ti vogliamo bene così come sei caro lettore. Ti ricordo che
Nel prossimo numero: QUATTROXQUATTRO, quattro recensioni per raccontare Lepers Productions!