Ci siamo, anche questo laboratorio si è concluso. Un percorso che è partito dalla necessità di vivere il tempo del crollo, quello in cui le grandi riviste e webzine scompaiono dal dibattito culturale, in cui il formato della recensione è messo in discussione, impreparati alla prossima mutazione del paesaggio attorno a noi.
Tre incontri: un’artista, Giacomo Stefanini, una redazione, quella di Livore, un’etichetta, Santa Valvola, un modo pratico e orizzontale di fare un laboratorio di giornalismo musicale, poca teoria, tanta pratica. Fare critica è prima di tutto una prassi comunicativa il cui linguaggio è il giudizio. Ascoltare, studiare, discernere, comparare, valutare. Non con le stelline o i voti, ma con l’argomentazione che spesso, oggi più che mai, è anche narrazione.
Grazie per averci seguito in questi sei numeri speciali, Ubu Dance Party è un esperimento, un laboratorio permanente che una volta l’anno si rinnova e cresce, cambia, cerca di stare al passo consapevole che sarà sempre una rincorsa. Da febbraio torneremo a uscire mensilmente e tornerà anche PREES PLAY, la nostra rubrica sulla musica per videogiochi ospitata dai magnifici ragazzi di Fango Radio.
Ci saranno anche delle novità, ma ci prenderemo il nostro tempo per presentarvele al meglio.
Buona lettura,
Giuseppe Di Lorenzo
Dove tutto è perfezione fare schifo è rivoluzione, parola dei Nausea or Questra
La verità è che mi sono approcciato a “A Sua Immagine e Somiglianza” dei Nausea or Questra con lo stesso entusiasmo con cui uno studente brufoloso e con la popolarità sociale di Chunk dei Goonies si approccia ad un testo di Manzoni sotto prescrizione obbligatoria del (maledetto) professore di lettere. Nel mio caso la prescrizione arrivava dalla redazione di Ubu Dance Party, ma cambia poco.
Per un po’ ho pensato di vestire quei panni così comodi fino a rispolverare il classico espediente del cane che si mangia il compito a casa, ma per quanto il mio Biagio sia un canide famelico - e completamente fuori controllo - nemmeno lui si mangerebbe mai un MacBook Pro. Per cui sì, ho passato diversi giorni in compagnia forzata di “A Sua Immagine e Somiglianza” dei Nausea or Questra e queste sono le mie considerazioni: si tratta di un grandissimo disco, sia lodata Santa Santissima Valvola, sempre sia lodata, ora pro nobis!
I Nausea Or Questra sono un power trio di Prato composto da Filippo Maccari alla voce e alla chitarra, Simone Nardi al basso, Daniele D’Andrea alla batteria. Il loro ultimo disco "A Sua Immagine e Somiglianza", edito da Santa Valvola Records e riconoscibile da una scimmia in copertina vestita da madre superiora (prima che Robbie Williams la rendesse mainstream) è un album punk metal stoner dall'altissimo contenuto anarchico, riottoso, sovversivo e, a volte, anticlericale.
Ascoltando i testi della band è facile farsi trascinare dalla parte sbagliata (o è quella giusta?) della barricata: licenze sgrammaticali, perché la sostanza conta più della forma, (“cicatrici sui diti”), graffiante ironia (“non abbassare la guardia, colpiscila al volto!”), digressioni kantiane sul rapporto fra l'io e il prossimo tuo nella società (“sono io il popolo, mangerò il prossimo”), quasi sempre controcorrente (“dove tutto è perfezione fare schifo è rivoluzione”) e non mancano nemmeno molotov anticlericali sganciate a grappolo sugli ascoltatori (“cristo è nudo”).
Non sono un amante delle assonanze, ma se serve ad incuriosire il lettore verso questo progetto allora la mente corre subito ai Fu Manchu con i quali i Nausea Or Questra condividono il piacere di mandare su di giri il motore pestando sempre, sempre, sull'acceleratore. Ma anche i seminali Kyuss tornano spesso alla mente.
Tuttavia il riferirsi precisamente ad una scena, che è quella stoner punk metal, per il gruppo non significa aderire ad un cliché, e questo è un grandissimo merito.
Infatti nella musica dei Nausea or Questra a volte le chitarre o certi giri di basso sembrano voler uscire dal registro metal e cercare altre strade, conferendo al sound del gruppo un'identità e una originalità propria e fuori dai canoni.
Ad esempio trovo - mia personalissima opinione e a titolo esemplificativo e non esaustivo - alcuni riferimenti alla chitarra elettrica e al giro di basso dei Clash di The Guns of Brixton all'inizio di Odia il prossimo e nell'assolo di chitarra a metà di H.H.H.H.
Infine, nonostante i giri alti, quasi vorticosi, i ragazzi riescono a portare alla luce melodie catchy e ganci orecchiabili che rendono i pezzi del disco apprezzabili anche ad un pubblico più generalista e questa non è roba da tutti.
“A sua immagine e somiglianza” risulta un album compiutissimo, quasi un concept album, mi resta la curiosità di capire se cambiando le tematiche dei prossimi dischi il “gioco” funzionerà lo stesso, perché per ora l'ideologia della band ha un impatto identitario anche sulla sua musica. Questo dualismo che qui pare inscindibile si può replicare certo, ci sono gruppi che c'hanno costruito una carriera (Assalti Frontali o 99 Posse ad esempio), ma se si volesse parlare di partecipazione, ad esempio, che è pur sempre un tema politico, la band e il loro sound funzionerebbero comunque?
Non resta che fare il conto alla rovescia per il prossimo album per scoprirlo da noi, ma nel frattempo ascoltate questo disco, per la Santa Valvola e tutti gli angeli in colonna!
Francesco Piersimoni
Frequentare cattive compagnie:
l’esordio dei Go!Zilla
Chiusi in un garage talmente stretto da farli agitare come tigri in gabbia, i polverosi rocker Go!Zilla, incaponiti sui loro strumenti come fossero armi da fuoco, sembrano mirare dritti alle budella da una distanza pericolosamente ravvicinata... e inutile dirlo, due/ tre accordi ben assestati il quintetto fiorentino finisce col piantarceli in corpo fin dai primi 30" di I'm Bleeding, brano di apertura dell'EP “Go!Zilla”.
Pubblicato nel 2012 per i tipi della pratese Santa Valvola Records, un'etichetta indipendente che “fa musica perché gli piace, fa la musica che le piace”, questo esordio dei Go!Zilla non avrebbe potuto sentirsi a casa - discografica - più di così. Un garage rock abrasivo, dissonante, claustrofobico, e nondimeno familiare, confortante, risaputo come i cibi che ci piacciono di più. Era sempre una festa sedersi a tavola sapendo che la mamma ce li aveva preparati per cena, peccato che la madre dei Go!Zilla, e di noi ingordi proseliti, ci abbia sempre lasciato frequentare le peggiori compagnie e sonorità, assistendo inerte alla vendita della nostra anima al diavolo – a occhio e croce quel signore dietro alla cassa del negozio di dischi. Non che non gliene importasse, le proteste non mancavano quando, porta chiusa a chiave, filtrava dalle nostre camere, senza Guida Ragionevole, il Frastuono Più Atroce. Ma un po’ la paura del conto del fabbro, un po' del fetore adolescenziale di là dalla soglia, la fecero sempre desistere dal forzare la serratura, lasciandoci indisturbati a consumare la nostra giovinezza come i tasti di una chitarra. Di questo, mamma, ti siamo riconoscenti.
A svecchiare il repertorio dei Go!Zilla, perlopiù ampiamente storicizzato - con la sua produzione che ricorda il sound dei 45 giri anni '60, le chitarre distorte e il suono che rimbalza sulle pareti dello studio facendocele sentire tutte - è proprio l'assoluta genuinità dell'esecuzione, immediata e urgente come l'ascolto di un disco degli Zeppelin appena terminata la quinta ora.
I'm Bleeding inizia come i postumi di una sbornia, con un basso spessissimo che scandisce a ritmo di emicrania: neanche a farlo apposta l'abbiamo presa di domenica sera, e ora a scuola chi ci va in queste condizioni? Ci sentiamo abbastanza fighi quando saliamo sull'autobus ancora sconvolti, spinti da quegli arpeggi di chitarra ubriaca... i compagni di classe lo noteranno di sicuro! Poi il brusio comincia ad essere troppo per le nostre tempie e vorremmo esplodere come il ritornello della canzone, dicendo loro di tacere, tacere!
Finiamo stravaccati sul banco sperando di non essere interrogati, il brusio che riprende, ancora insopportabile.
L'incipit spaccone di No Man's Land entra in classe come un bullo, la chitarra che ne imita la goffa ed enfatica camminata, quasi da cowboy. Canta una voce smargiassa interrotta da riff deliranti di chitarra, mentre la sezione ritmica mantiene un passo da stivaloni di cuoio, con tanto di sonaglio ad imitare il tintinnio degli speroni.
Il canto di Get Me Out Of Here soffia come una brezza, troppo leggera per ristorare dei poveri diavoli che posano rotaie nel deserto. Lo scampanellio western della chitarra sembra descrivere una giornata di fatica interminabile, e il ritornello segna fragoroso picchi di esasperazione, passati i quali canzone e giornata proseguono inesorabili.
Crimson Skies si abbatte su di noi come una tempesta di sabbia, tutti gli strumenti coagulati in una nube impenetrabile dalla quale filtra disperata la voce, cantando lo spessore insopportabile del cielo. Sul finire della canzone, i sinistri rintocchi di basso, chitarra e batteria all'unisono rimangono a scrutare, come un campanile, il cimitero lasciato dalla tempesta che si allontana.
Una chitarra nitida e tagliente al piccolo galoppo introduce Y.M.O.T., dirigendo verso alture dalle quali si scorgono sparuti bivacchi. La cavalcata prosegue discendente fino al ritornello, quando inizia una scorribanda tra quelle tende cenciose, con tam-tam concitati e basso martellante. La sei corde suona sempre misurata nell'agitazione collettiva, come se stesse censendo l'esatto ammontare del bottino razziato.
L'attacco di Go!Zilla Surf, ancora una volta affidato alla precisissima chitarra, descrive l'arrivo di un treno un attimo prima dell'assalto. I cavalli si agitano, il basso gracchia cavernoso e la chitarra fuzz lo incalza gettandosi al galoppo. Al centro del brano c'è come un momento di incertezza: la sei corde tintinna per pochi secondi, incerta come una sei colpi che brandiamo senza saperla usare... forse ci chiediamo se siamo veramente adatti alla situazione. Magari ci siamo soltanto lasciati irretire da cattive compagnie... Ma è soltanto la mamma che bussa più forte del solito di là dalla porta.
Alziamo il volume e lasciamo che la canzone finisca in tutto il suo Atroce Frastuono.
Giacomo De Cecco
Il diavolo non fa i coperchi:
“Simon” degli Stoner Kebab
Il metal italiano non è che mi abbia mai dato chissà che grandi soddisfazioni. Vuoi per il vecchissimo discorso che il rock è una cosa americana ed è naturale che sia così, vuoi perché il concetto stesso di “rock band” non appena ci si allontana da certo prog diventi un qualcosa che teme eccome paragoni con l’estero, e anzi date le premesse stupisce la quantità di band italiane che sono nate e continuano a suonare sotto l’egida di questo genere ombrello - troppo spesso concretizzandosi in un pastone power-symphonic-progressive di una pacchianeria desolante. Lo stesso si sarebbe teoricamente dovuto dire con l’hardcore, invece in quel caso l’esito fu ottimo per gli standard del rock italiano. Nel metal no, perché? I motivi possono essere molteplici, alcuni semplici da indovinare sono la troppa distanza fisica e anche concettuale dall’America, secoli per non dire millenni di filosofia cristiana che ha condizionato anche il concetto di musica in profondità a livello sociale, ben al di là cioè della censura imposta dal potere, l’incapacità di creare un filone personale e soddisfacente. Forse l’hardcore ebbe sorti migliori solo perché riuscì a inserirsi in un contesto di lotta politica che in quegli anni era particolarmente sentita. Lascio a storici e sociologi di discutere l’esattezza di questa teoria.
Gli Stoner Kebab sono dunque un complesso doom-stoner da Prato, con componenti che cambiano continuamente da un disco all’altro, genere che invero conta diverse band interessanti un po’ ovunque in Italia, come gli Ufomammut (i più famosi), i King Bong, i Black Rainbows, i Prehistoric Pigs. Spiccare fra tutti questi contendenti è oggettivamente difficile. Cos’hanno da offrire gli Stoner Kebab in questo loro quarto album del 2013 prodotto da Santa Valvola Records, cioè “Simon”? Scopriamolo affrontando direttamente le tracce, di qualità assai disomogenea.
La band parte in quarta: un’apertura atmosferica da manuale traghetta al primo tiratissimo riff in St. Lucy, per poi sciogliersi in un coro alla Hawkwind. I nostri alternano passaggi doom ad altri stoner, navigano a vista, trotterellano impetuosamente secondo un modus operandi vincente che risale ai Cathedral di “The Ethereal Mirror” (‘93), gli Electric Wizard di “Come My Fanatics” (‘97), gli Sleep di “Holy Mountain” (‘92) e tutte quelle band insomma che un giorno hanno ascoltato Sweet Leaf dei Black Sabbath e hanno pensato di farci una carriera. Queste influenze ricorrono un po’ in tutta la loro discografia. È un pezzo che sa essere davvero coinvolgente presso il pubblico, tanto che nel nono minuto appare persino un anthem che in altra salsa potrebbe essere del miglior Vasco Rossi. St. Lucy è quindi un brano di 13 minuti che non fa pesare un attimo la sua lunghezza, in cui la band dimostra un’eccellente consapevolezza della storia del genere, nonché di come sfruttare i propri mezzi. Un mezzo miracolo.
Riprendono alla grande con Mad Donna, cavalcata tiratissima chiaramente ispirata a Green Machine (dei Kyuss), virilissimo rito vichingo del 2000 che fa ripensare all’irruenza di “Chapter Zero” (il loro EP-esordio, 2005).
A conferma che gli Stoner Kebab danno il loro meglio quando premono sull’acceleratore, quando le loro canzoni si fanno trascinanti.
Qualcuno dirà che gli Ufomammut cose del genere le hanno già fatte in Italia e anche bene. Io dico che questa loro declinazione “spassosa” è fra le cose migliori che il genere abbia mai prodotto qui in Italia; non a caso queste due tracce rendono benissimo dal vivo.
Si giunge a My Cold Jackson, altro ovvio gioco di parole col nome di una popstar, che è già più sul generis coi suoi riferimenti ai Neurosis privi tuttavia di una qualità di infrastruttura musicale a loro paragonabile. Da qui in poi i Nostri cercano di prendersi più sul serio, esprimendo contenuti più vuoti, disperati. Il problema è che non hanno in questo momento l’ispirazione necessaria per giustificarne l’espressione, e il risultato è sovente un nero-seppia un po’ fine a sé stesso. Sex Sex Sex infatti richiama ora i Melvins di Hung Bunny, ora i Tool. Ancora, le ispirazioni e gli intenti sono ottimi, ma il risultato non riesce a convincere. Un po’ perché la traccia è troppo lunga per quello che ha da dire, un po’ perché quando approcciano lo stile Tool dimostrano evidenti limiti tecnici e di fantasia, e a quel punto la tentazione di smettere di ascoltare il disco e di mettere su “Lateralus” è forte.
New Evil Through Evil e The Monster sono pallidi tour-de-force che non riescono a imprimersi nella memoria, narrazioni orrorifiche in cui il mostro viene svelato a un terzo della durata e quindi proseguire nell’ascolto è una vana fatica. Il peggio che si possa rinfacciare agli Stoner Kebab sta proprio in questa noiosa autoindulgenza che in un modo o nell’altro intacca i pezzi non appena ci si allontana dai primi due. Certo si potrebbe argomentare all’opposto, cioè che le tracce più seriose siano di qualità migliore in quanto appunto più serie, ma lascio questa interpretazione a spiriti più contemplativi - e che magari si sono persi decenni di doom fatto meglio. Per confronto si ascolti “Imber Vulgi” (2007), album costituito da un’unica traccia-monolite che pur con qualche limite d’ispirazione compositiva sa scoprire meglio le sue carte.
Se si dice che i musicisti abbiano un “santino nel portafoglio”, quello degli Stoner Kebab allora rischia di esplodere di fototessere, tanti sono i loro riferimenti. Dalla loro hanno comunque un alto senso della professionalità, che emerge soprattutto nelle parti cantate, nonché appunto un’enciclopedica conoscenza del metal loro affine. Fattori che a onor del vero fissano nella loro musica degli standard qualitativi anche nei momenti meno efficaci.
Menzioni finali per la copertina tra il basic e il geniale, per il loro canale youtube con meno di 450 iscrizioni – benissimo – e in particolare per il video prodotto dal fantomatico Simon Talatesta a cui potrebbe essere dedicato quest’album, anche se è difficile dirlo poiché lo precede di due anni circa.
Marco Ledri
Non ti sento, stronzo, parla più forte!
Scorrono sullo schermo immagini volutamente sfocate di una band, formazione classica in trio, durante un live che si direbbe bello energico. Il rullo della batteria è impetuoso, il volto nascosto dai capelli di un ragazzo che urla nel microfono trasmette una rabbiosa vitalità che appare da subito come quella “giusta”.
Poi si sente una voce:
«Parte dal punk rock un po’ più heavy, come mentalità comunque sound anni ‘90, verso il noise abbastanza caos, rumore, fondamentalmente di base punk».
L’inquadratura si allarga sugli stessi tre musicisti, impegnati a rispondere alle domande di un’intervista realizzata per la prima edizione del Festival NoisemoJesi, anno 2016, mentre, in sottofondo, ruggisce inesauribile il suono della chitarra elettrica:
«Ci piaceva chiamare il gruppo con un nome di persona, poi è venuto fuori questo nome qua, sembrava un po’ per ridere così preso da Lleroy di Saranno Famosi che poi è morto malamente di overdose a Bologna».
È lo stesso ragazzo col ciuffo a parlare, Francesco Zocca, chitarrista e frontman dei Lleroy, band proveniente da Jesi e sulla scena ormai dal 2000. Alla sua destra Riccardo Ceccacci, batterista, con lui fin dagli esordi, fa eco alle parole del compagno e i due ridono, insieme. Chiude il terzetto Chiara Antoniozzi, bassista con lo sguardo magnetico che, ovviamente, non ride mai.
Nell’ipermondo digitale dei giorni nostri approcciare un progetto artistico è anche questo, cercare un vecchio video su internet per capire con chi si ha a che fare, per guardarli negli occhi, quei tre ragazzi solo apparentemente incuranti di ciò che stanno dicendo al loro intervistatore. Chissà perché ridono, chissà se è solo un modo per schermirsi di fronte all’obbligo del raccontarsi, quando in realtà vorrebbero solo e soltanto suonare. Vien voglia di superare tempo e spazio per sedersi di fronte a loro, condividere per un po’ la stessa leggerezza e poi buttargli sul tavolo una copia di “Dissipatio HC”, loro album del 2017 di cui siamo qui a parlare.
Il titolo lo hanno storpiato da quel vecchio romanzo di Guido Morselli, autore contorto, dalla scrittura innegabilmente creativa, talvolta estenuante, la cui aura oscura aumenta innegabilmente le aspettative sulla musica.
Distorsioni, riff annebbiato di chitarra, rullo potente di batteria e si parte con Hallux Valgus, brano apripista di quello che è il quarto album, in ordine di tempo, per la band marchigiana. L’inizio è decisamente buono, i suoni sono potenti e ottengono un effetto abrasivo anche con una produzione così pulita, vien subito da pensare a quante ore, giorni o anni hanno passato, i tre, a cercare la propria grana sonora.
Le due canzoni successive seguono la stessa onda, impastate con colori fin troppo simili: la voce effetto graffio, la chitarra imbizzarrita che domina la scena o svolazza via per conto proprio, come nella bella introduzione di 2 di 1, brano in cui i Lleroy sorprendono tutti, forse anche loro stessi, sospendendo il tempo in un frammento inatteso di quiete, ingentilito dalle carezze eteree degli archi.
Dario vs resto del mondo delinea le altre coordinate utili a stabilire la cifra dell’album: l’armatura ferrosa della parte ritmica, che ruota coi suoi cingoli per fare strada alle melodie.
Il cantato sempre offuscato, immerso più che mai nei gangli della macchina sonora, risulta spesso difficile capire cosa dica, Francesco, ma indiscutibile appare il suo carisma.
Bisogna però aspettare Bruxo per ritrovare qualcosa di inaspettato, uno scarto d’azione in grado di sorprendere il corpo e proiettarlo a curiosare, orecchio teso, verso la cassa: il finale del pezzo allarga di colpo lo scenario su una giungla elettrica, in cui i suoni di chitarra volteggiano come animali minacciosi. Una gran bella idea, una trovata di quelle che fanno la differenza e di cui, probabilmente, si sente un po’ la mancanza in altri momenti di questo disco.
Càtonia si muove in un mondo quasi spettrale in cui la tensione sta tutta nel dualismo fra le corde: le sei che arpeggiano esasperanti e le quattro che rimbalzano severe, come due personaggi che si inseguono in una storia in cui le percussioni fanno da scenografia. Tutto muore e si esaurisce nella lunga cavalcata al rallenti di Dissipatio, finale più che mai teatrale, con la sua alternanza di urla disperate e sussurri accecati che perdono un po’ del loro fuoco proprio quando il ritmo si impenna e tutto diventa improvvisamente consueto.
Il quarto album dei Lleroy si spegne coi colpi con cui di solito finisce uno spettacolo pirotecnico, resta solo fumo nella stanza e al suo diradarsi appare enorme e minacciosa una sensazione dai tratti elefanteschi, impossibile da ignorare. Torna in mente il libro di Morselli, con quel suo oceano di sottrazione e di primordiale libertà, delineata da sentenze quali «Guardie, controlli, non servono più, infatti sono inesistenti».
Qui invece ci sono le guardie e i controllori, una folla biblica di cantanti, musicisti, artisti provenienti da quegli anni ‘90 che anche i nostri tre citano nella loro intervista. È una presenza ingombrante, che a più riprese rischia di soffocare l’ascolto, in un continuo senso di déja vu. Provi a lasciarti andare sul ritmo, sicuramente travolgente, della musica e te li ritrovi sempre in mezzo ai piedi, tutti, dai volti noti di Seattle fino agli epigoni che tentarono di replicare la scena anche da noi in Italia, da Bergamo a Cuneo, passando ovviamente per Milano.
Forse è un peccato di gioventù, una di quelle cose che poi si perdona a chi diventa grande plasmando la propria unica identità. I Lleroy hanno tutte le carte in regola per farlo, scrivono bene e suonano ancora meglio, hanno stile e talento, non gli resta che compiere il delitto e lanciarsi verso l’oblio, starà poi a noi, a chi ascolta, guardarli precipitare, oppure volare. Dice ancora, lo scrittore che li ha ispirati:
«Lo volessi o no bisognava rientrare: riattaccare, dopo la parentesi dedicata agli altri, il discorso con me».
Alessio Esposito
Vi ricordo che oltre su Fango Radio potete trovarci su YouTube, mentre per fare due chiacchiere abbiamo anche un vivacissimo canale Telegram. Grazie ancora per esserci, ci leggiamo a febbraio.