Questo sarà un mese speciale per Ubu Dance Party, perché usciranno ben sei articoli, tre interviste e tre approfondimenti discografici su queste tre realtà. Come lo scorso anno, anche quest’anno è stato rinnovato il laboratorio gratuito di giornalismo musicale, in cui un gruppo di aspiranti critici e giornalisti si sono cimentati nelle forme tipiche del giornalismo musicale, puntellando il proprio percorso di riflessioni rubate a Ted Gioia, Mano Sundaresan, Damir Ivic, per rilanciarci ogni volta la stessa domanda: ha ancora senso scrivere di musica?
Ce lo siamo chiesti assieme a tre realtà del panorama italiano: un artista, un’etichetta, una redazione di critici. Oggi è il turno di Giacomo Stefanini, mentre martedì usciranno 4 recensioni a compendio di questa intervista.
Buona lettura,
Giuseppe Di Lorenzo
Giacomo Stefanini è una delle emanazioni più pervasive del DIY italiano, dal post punk imprevedibile dei Mirrorism fino all’hardcore puro e duro dei Kobra, collaborando qua e là con diversi gruppi di culto (tra cui i Dots). Per otto anni ha scritto su Noesy di musica - e lo ha fatto molto bene. Oggi, tenendo fede alla sua instancabile testimonianza del mondo underground, ha fondato un’etichetta/collettivo (Sentiero Futuro Autoproduzioni), suona la chitarra e la tastiera per gli ONDAKEIKI e il suo progetto solista (Porta D’Oro) dopo un brillante esordio nel 2021, nel 2024 trova casa in Maple Death e Legno con “Così Dentro Come Fuori”, finendo anche in qualche classifica di fine anno.
Nel panorama musicale odierno, al tempo dei social, delle view, della reach, dei pezzi virali su Tik Tok, ha ancora senso parlare di major e di minor di case discografiche indipendenti e qual è secondo te il ruolo dell'artista indipendente? Se ha ancora un ruolo.
Sì, ha ancora senso distinguere tra major e non-Major. Qui probabilmente esce fuori il mio lato da ex-giornalista, ma noto che negli ultimi anni il mondo delle major è cambiato parecchio, si è spostato sempre più verso la musica “commerciale” nel senso più letterale, ovvero ottimizzata per la vendita. Oggi la musica prodotta dalle grandi etichette è più “prodotto” che mai, persino più di quanto lo fosse nell'epoca d'oro dell’industria, come ai tempi dei The Rolling Stones. Ci sono squadre di autori che lavorano con obiettivi ben precisi in un contesto produttivo iper-competitivo. Se è vero che i colossi stanno bene come al solito, le etichette indipendenti invece hanno perso un po’ di quella vera indipendenza che avevano, ed è diventato complicato parlarne. Tra le “minor”, infatti, ci sono mille sfumature. Per esempio, c’è quello che ho fatto io negli ultimi anni con Sentiero Futuro Autoproduzioni: non è una vera casa discografica, ma un gruppo di amici che mette insieme competenze, abilità e tempo per aiutare chi vuole pubblicare la propria musica. Il mondo della musica indipendente si è frammentato perché sono finiti i soldi. Un tempo in questo settore qualcuno poteva anche camparci, oggi è estremamente più difficile che accada.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, sul ruolo dell’artista indipendente che va “in direzione ostinata e contraria”, credo che questo ruolo possa esistere, ma non tutti riescono a incarnarlo.
Il valore di un artista indipendente si misura nella capacità di creare comunità, soprattutto nei periodi di isolamento e solitudine.
La cosa bella della musica indipendente è proprio questa: spinge a creare una scena, una comunità che arricchisce tutti, arricchisce la cultura, chi la vive personalmente e gli ascoltatori.
Per quanto riguarda il percorso con uno dei tuoi primi progetti musicali, quello dei Mirrorism, cosa vi ha spinto nel 2024 a tornare a fare le cose senza un’etichetta? Cambia qualcosa nel processo creativo e nella scrittura dei brani, oppure è un fattore strettamente legato alle esperienze acquisite?
Purtroppo la risposta è molto più semplice: è stata una questione di sfortuna. Cominciamo dall’autoproduzione: per il primo demo avevamo un amico che lavorava in uno studio gestito dal nostro comune di residenza. Non si pagava niente o quasi niente per registrare, ma non ci piaceva come usciva il sound e allora abbiamo deciso di registrare tutto da soli. Quindi di fatto anche la cassetta uscita nel 2012 su Bored Youth [“Fly Eye”] era in realtà una cosa che noi avevamo registrato in autonomia, una vera e propria autoproduzione. In quella occasione è stata la prima volta che abbiamo usato il quattro piste a cassetta, lo stesso che poi ho usato in seguito con Porta D’oro. In seguito dei nostri amici di Milano hanno fondato un'etichetta soltanto per far uscire quella cassetta, in contemporanea con altre due uscite, se non ricordo male. Se non l'avessero fatto loro l'avremmo fatto noi da soli, ma ce l'hanno proposto e noi abbiamo accettato.
Per quanto riguarda il sette pollici che è stato estratto da quella cassetta è andata più o meno così: i ragazzi dell’etichetta Trouble in Mind da oltre oceano hanno ascoltato i due pezzi online e ci hanno scritto se potevano pubblicarle in un sette pollici. Noi avremmo preferito dargli altri brani, ma a loro piacevano quelle due lì e così abbiamo fatto scegliere a loro. Quando poi abbiamo registrato il vero e proprio album lo abbiamo mandato subito a Trouble in Mind, solo che loro ci avevano messo un po' a rispondere e nel frattempo noi siamo stati costretti a sciogliere il gruppo per motivi di salute di uno dei nostri. A quel punto per l’etichetta americana non aveva più molto senso produrre il disco di una band che non sarebbe mai andata in tour, comprensibilmente, e così ci siamo pubblicati l’album da soli [“Mirrorism” 2014]. Del resto la differenza fra pubblicare autonomamente o per un'etichetta indipendente non è tanta, nel senso che le label indipendenti ti lasciano comunque fare quello che vuoi dal punto di vista creativo.
Dalla tua esperienza di giornalista musicale (su VICE Italia) abbiamo letto l’articolo in cui intervistavi Penny Rimbaud dei Crass, forse la band anarcho-punk per eccellenza; in un’altro articolo ne hai anche segnalato un documentario sulla loro storia. Ci è quindi parso che la loro figura sia stata importante per te, per il tuo modo di intendere la musica. Secondo te avere determinate influenze possono nobilitare il discorso musicale di un'artista rock?
Non tutti i musicisti ascoltano tanta musica, e a volte questo li aiuta, perché li rende più liberi, più personali, più originali. Il mio caso è opposto, nel senso che sono cresciuto come “megafanatico” di tanta musica, cercavo di conoscere vita morte e miracoli di tutti i miei musicisti preferiti. Questo in passato è stato un ostacolo, perché mi sembrava che fosse stato tutto già fatto, che stessi copiando a destra e a manca. Poi a un certo punto ho capito che non era vero, e che potevo suonare tutto quello che volevo senza sentirmi obbligato a fare qualcosa di completamente originale. Ultimamente ascolto poca musica, sembra che più ne faccio e meno ne ascolto. Però, nonostante tutto, credo che il mio percorso sia stato molto arricchito da quegli ascolti, ma non solo, anche da letture di riviste, interviste, video, qualunque cosa.
Mi confonde invece l’uso del termine “nobilitare”, non credo nemmeno che sia l’obiettivo della musica quello di “essere nobilitata”. Per esempio, consideriamo l’influenza di una band come i Crass dal punto di vista politico, anzi diciamo metodologico.
I Crass non si possono replicare, ma quella “metodologia” invece sì, o meglio si può farla propria.
Per qualcuno questo approccio funziona benissimo, però sai, la musica è la cosa più lontana da una scienza esatta che possa esistere, si può fare tutto e il contrario di tutto. Per questo il concetto di “nobilitare” mi suona strano, sembra che ci sia un sopra e un sotto, ma la musica è qualcos’altro.
La tua musica spesso annovera registri e dinamiche discografiche tipiche di un passato illustre: dai forti echi post punk e no-wave di Mirrorism all’hardcore dei Kobra all’autoproduzione e alle etichette indipendenti. Queste scelte pongono il problema dell’attualità, ma sappiamo quanta ambiguità comporti questo valore: per quanto si reclamino registri in grado di esprimere l’oggi non mancano episodi autorevoli a ricordarci come le migliori considerazioni siano spesso inattuali. Quale valore/disvalore attribuisci all’attualità, come nell’espressione musicale e più in generale artistica; quali istanze consideri dunque davvero coeve, anche osservando il panorama musicale contemporaneo, ricco di revival e retromanie.
Affrontare temi come l’attualità e la qualità della musica non è mai facile per me. Ora che ho 38 anni comincio a sentirmi un po’ “veterano” rispetto alla scena musicale. Quando mi capita di suonare e dividere uno spazio con ventenni mi sembra di vivere un paradosso: sul palco siamo colleghi, ma se ci incontrassimo al supermercato probabilmente mi darebbero del “lei”. Fa un certo effetto, no? Pensando all’attualità musicale, una cosa che ho osservato – e che anche Nicola, il bassista degli ONDAKEIKI mi ha fatto notare – è che non esistono più le tribù musicali di una volta. Nella mia generazione, appartenere a una sottocultura era una scelta seria, quasi rigida. Se amavi un genere, come il punk nel mio caso, ne abbracciavi tutte le caratteristiche e respingevi categoricamente gli altri, tipo il metal. Non era solo un atteggiamento, ma una vera forma di identità. Per dire, certi classici del metal non li ho mai ascoltati, e tuttora non riesco a entrarci: è come se avessi un blocco.
Oggi, invece, le cose sono molto diverse. Quei pregiudizi rigidi non esistono più: i generi si mescolano liberamente. I risultati possono variare, certo, ma alla fine è sempre una questione di gusti.
Mi sembra che l’approccio alla musica oggi sia meno settario, e questa apertura la trovo davvero interessante.
In più, avere influenze retrò non è più visto come un “crimine”. Anzi, non ti impedisce di creare qualcosa di valido o che il pubblico possa apprezzare. Un esempio che mi viene in mente è quando siamo andati a suonare a Roma e abbiamo condiviso il palco con un gruppo emergente, i Neo Primitivi. Loro sono dichiaratamente citazionisti, con cover di band come i Modern Lovers e i Velvet Underground nel loro set. Eppure, nonostante queste influenze vintage, mi sono sembrati incredibilmente contemporanei. Non saprei spiegare esattamente il perché – è un compito che lascio a voi critici musicali – ma c’era qualcosa nel loro modo di fare musica che li rendeva attuali.
Con gli ONDAKEIKI cerchiamo sempre di mescolare influenze e suoni diversi. Questo, secondo me, rende la nostra musica abbastanza contemporanea. Ovviamente, essere "contemporanei" non è un valore assoluto, ma viviamo in un’epoca in cui possiamo ascoltare di tutto, in qualsiasi momento. Ha senso formare una band che imita gli Stooges? Forse no. Ma se ti diverte farlo, chi sono io per dirti di smettere? Non sono un critico musicale, quindi non sta a me giudicare. Però, se devo dire la mia, penso che se prendi qualcosa dal passato, dovresti anche aggiungere un tocco personale. Una volta, durante un concerto di una band che piaceva al mio amico Thomas ma che io non sopportavo, gli ho detto: «Sono stufo di ascoltare musica che sembra fatta solo per essere “cool”». Come ascoltatore vorrei sentire qualcosa che mi trasmetta un messaggio, che mi faccia capire il perché di ciò che stai dicendo. Ad esempio, nei testi di Porta d’Oro non sempre sono diretto o facile da capire, ma credo che si percepisca un intento, qualcosa di autentico e personale. Le cose fatte solo per estetica mi interessano fino a un certo punto.
Per quanto riguarda il tuo progetto solista Porta d'Oro, ci abbiamo trovato un suono diverso, più vicino al minimalismo che all'hardcore punk delle tue altre esperienze. Ci siamo chiesti se questa rarefazione di suoni e questo approccio diverso a comporre in qualche modo è stato figlio della della pandemia. Che impatto ha avuto nella tua musica la situazione di questi ultimi anni?
La risposta è sì, è stato figlio della pandemia, ma è stato anche figlio anche della psicoterapia. Però devo dire che se tu vai ad ascoltare la prima cassetta che ho fatto [“Libero Pensatore/Porta d’Oro”, Sentiero Futuro Autoproduzioni, 2021], soprattutto il lato A, ci sono delle delle parti che sono registrate con il microfono fuori dalla finestra. A quei tempi vivevo in una casa al piano rialzato, avevo le sbarre alle finestre e mi ci ero trasferito mentre iniziava la pandemia.
E quindi ci sono quelle registrazioni di suoni da fuori, suoni da dentro, volevo catturare il suono di quei giorni lì, quindi sì, il sound di Porta d’Oro risente moltissimo di quel periodo. Per quanto riguarda l'approccio minimalista e “casalingo” è sempre stata un po' una mia fissa, in realtà, anche con i Mirrorism. Ci trovavamo la domenica a casa di David [ora autore del suo progetto solista DIVED] e facevamo sessioni di registrazione lunghe tutto il giorno su nastro, suonando a caso. Fu un periodo molto bello e ancora tanto influente su di me.
Dicembre è il mese delle classifiche di fine anno. Molti le detestano, altri le adorano, noi le troviamo un modo come un altro per condividere musica nuova, artisti e scoperte degli ultimi dodici mesi discografici. Non ti chiederò quindi un ordine di classifica ma vorrei comunque sapere cosa hai ascoltato quest’anno, fra nomi nuovi e artisti magari già affermati. Dischi che devo assolutamente recuperare e altri che, in un modo o nell’altro, ti hanno deluso.
Mi capita a fagiolo questa domanda perché io sono sempre stato uno che un po' che le snobbava e poi oggi, proprio poche ore fa, ho scoperto che il mio disco è nella classifica di un blog e mi sono emozionato tantissimo. Così ho riflettuto sul fatto che una classifica lascia davvero il tempo che trova nel senso dell’ordine e del merito degli artisti però, arrivare a fine anno e avere dei riferimenti, una sorta di guida all’ascolto, può essere giustamente utile, può farti scoprire un sacco di cose. Per quanto riguarda me ti dico che ho ascoltato davvero pochissime cose nuove nel 2024, il mio “disco dell'anno”, per dire, resta quello dell'anno scorso, cioè “Dancing on the Edge” di Ryan Davis and the Road House. Per quanto riguarda il 2024 ho da fare una confessione che mi mette un po’ in imbarazzo perché questo, per me, è stato un anno un po’.. indie rock! Alcune vicende personali mi hanno portato ad ascoltare più di quanto avrei voluto band come Silver Jews, Yo La Tengo e altre cose cose del genere. L’album degli Hard Quartet, il gruppo di Stephen Malkmus, Matt Sweeney, eccetera. Ho trovato bellissimo anche “Material Pop Volume One” di Rat Henry, pubblicato da Minimum Table Stacks, un’etichetta che esiste da un paio d’anni e ha pubblicato solo bombe.
Intervista a cura della redazione, revisione di Francesco Piersimoni.
Grazie di essere arrivati alla fine di questa intervista, speriamo sia stata stimolante da leggere come per noi è stato illuminante poter chiacchierare con Giacomo. Martedì uscirà il 4X4, quattro recensioni di quattro album peculiari del percorso artistico di Stefanini, un vero e proprio approfondimento sulla discografia in cui i laboratoristi hanno espresso giudizi contrastanti, complessi, poetici, metaforici, entusiastici e caustici.
A presto!