Scegliere quattro album per raccontare la traiettoria di un artista è un’operazione critica, nel senso stretto del termine. Separare, discernere, valorizzare, sono tutti sinonimi che illuminano il processo critico nella sua essenzialità: scegliere.
Credo fermamente che il giudizio non sia lo scopo della critica, ma il suo linguaggio. La critica è giudizio, è ricerca incessante della qualità, e nel laboratorio di giornalismo di questa newsletter che state leggendo i partecipanti sono stati seguiti in ogni aspetto della scrittura, ma non del giudizio. Perché ogni prospettiva racconta, stimola, mette in luce angoli nascosti dello stesso oggetto.
Per questo secondo incontro con le restituzioni del laboratorio di Ubu Dance Party ci siamo soffermati su quattro album che hanno segnato il percorso di Giacomo Stefanini, che i laboratoristi hanno intervistato e torchiato nel primo numero di Gennaio.
Grazie di cuore a chi ci legge per sostenere questo progetto, senza dibattito culturale l’arte perde d’importanza e quindi di influenza, lasciandoci privi di una mappa per interpretare il senso delle cose.
Buona lettura,
Giuseppe Di Lorenzo
Chiusi in una stanza dalla porta d'oro. Così dentro come fuori di Giacomo Stefanini.
Credevamo di gustare certi piaceri così a buon prezzo solo nelle periferie più polverose invece abbiamo trovato il caffè a 1 euro in un bar del pieno centro, non serve neanche mettere lo zucchero tanto siamo addolciti da questa sorpresa.
È l'effetto che fa ascoltare l'ottimo Così dentro come fuori di Porta d'oro (Maple Death Records, 2024), un disco attuale come una via del centro dal quale spuntano, con lo stesso garbo di quel caffè ancora a 1 euro, tanti usi e costumi del passato che ci aspetteremmo piuttosto di trovare fuori città, dove certe cose usa farle ancora come una volta. Abbiamo l'incipit al sintetizzatore di Blow-Daddy O dei Pere Ubu preso in prestito per Conta i passi la lepre, primo brano del disco; il basso dub con battito di rullante filtrato à-la Fodderstompf dei Public Image Limited adottato per O sentiero futuro; certo chitarrismo incespicante e distorto stile Velvet Underground a sorreggere il brano in chiusura: Tutto crolla.
Giacomo Stefanini, titolare del progetto, centellina lungo il disco queste “vecchie” sonorità come buone maniere del fare musica passate un po' di moda, da galantuomo rock quale è. Registrato in piena pandemia, il disco si ripropone di catturare l'atmosfera di chiusura e isolamento di quei giorni, impresa che si compie nella sostanziale passività dello spleen da cameretta di Giacomo: la musica evolve poco o nulla, il canto è lontano, sempre trattato, riverberato, chiuso dietro la finestra che da sul marciapiede dal quale ascoltiamo, confusi dal brusio di suoni della strada che arricchiscono le tracce del disco. I brani sembrano iniziare e finire sistematicamente a metà, mentre i testi, privi di qualsivoglia sviluppo, procedono per giustapposizione di iperboli e lamenti: schegge di un pensiero rinchiuso “così dentro come fuori”, forzatamente intimista, sorpreso dalla sua improvvisa mancanza di aderenza al quotidiano come lo conosciamo.
Comincia Stefanini il suo racconto con Conta i passi la lepre. Il lamento della chitarra in apertura vibra in una grotta gocciolante dalla quale Giacomo declama un testo su marmotte grate e lepri diligenti, aironi con autostima. “Non manca la nostalgia nella pioggia di novembre”, sentenzia il testo, mentre questa sembra abbattersi sulle note sempre più annoiate della chitarra.
Giacomo ci catapulta in un pomeriggio di quelle lunghe giornate rimasti sempre in pigiama alle quali il lockdown ci ha abituati, soleggiate di grigio e contraddittoriamente non così sprovviste di comfort, liete come quando si rimaneva a casa da scuola, ma con la febbre.
Su Cielo e inferno introduce il basso dub che ci accompagnerà su molte prossime tracce del disco. Subito si aggiungono echi di sottopassaggi umidi e parcheggi desolati, nei quali si aggira dimesso un sax subacqueo. Lo accompagna in questa passeggiata per la psiche il canto di Giacomo, commentatore del paesaggio forse più loquace del taciturno sax ma non per questo meno ermetico. Si ha la sensazione di bighellonare per la periferia del nostro umore migliore, quando il cielo si ingrigisce ed ispessisce fino a lambirci il cucuzzolo, rimasti senza nulla di particolare da fare, se non tornare al lavoro o a scuola il mattino successivo.
La tastiera di O sentiero futuro si solleva dal ritmo dub come un pigro volatile e volteggia su una periferia urbana e sonora fin troppo conosciuta; sarà questa familiarità a rasserenare Giacomo e in generale l'umore della canzone, più ironica e distaccata… i cari vecchi sobborghi, non saranno perfetti, ma è dove ci sentiamo a casa, in un certo qual modo. Tutti sanno che anche nelle migliori famiglie abbondano le liti domestiche: ed eccoci a Bleah, dove quegli stessi cari sobborghi, restituiti da un testo più descrittivo del solito, questa volta incassano un po' dello schifo che suscitano nell'osservatore alla solita finestra.
Un sasso nero è una domenica pomeriggio nei parchi, coi genitori o forse no, una nenia di fisarmonica che filtra dalle finestre del circolo dove vendono caldarroste. Fa abbastanza freddo, è autunno, come autunnale è qualsiasi domenica pomeriggio quando l'indomani si torna a scuola. Dolce come ricordare la paura di non aver fatto i compiti quando arriva la maestra, è il brano più misurato e dinamico del disco, con quel pizzichio di corde di chitarra filtrata che ricordano i fili della luce contro il cielo grigio. Così dentro come fuori conferma l'umore della precedente traccia; il riff di tastiera che scandisce il brano è ovattato come se lo stessimo ascoltando con un cuscino premuto sulle orecchie, chiusi in camera dopo aver sbattuto la porta.
La musica si sdraia con noi per confortare una sera di quelle dove veramente non ne possiamo più.
A calmarci definitivamente è la successiva Là, cullandoci con quel motivo da ninna nanna alla tastiera e la filastrocca recitata da Giacomo.
Il disco si chiude con massicce iniezioni di psichedelia. Agli scenari urbani succedono le distese desertiche echeggianti di Notte e giorno. Una chitarra miagolante nasconde droni lontani che sibilano come il soffio dello scirocco, mentre il basso incalzante in chiusura del brano, sempre più cavernoso, sembra scavare buche nella sabbia dove adagiarci al caldo.
Giunti all'oasi al centro del deserto ci allietano i cinguettii di pennuti esotici, come quelli campionati per la finale Tutto crolla. La chitarra a fargli il verso, il soffio del vento della traccia precedente che si approssima, ecco che, come ci avverte il testo, “si apre la prima crepa”, poi la seconda, fino alla sesta: quel tappeto fiorito svanisce tra le fratture della stessa distesa desertica che sembravamo esserci lasciati alle spalle. Così il miraggio cessa, il brano si spezza sotto il peso delle massicce distorsioni finali, e forse anche in noi tutto crolla.
Giacomo De Cecco
Dritto in faccia
ovvero: come i Mirrorism mi hanno steso
Prima di tutto il busto di un giovane pugile che somiglia dannatamente a Rocky Marciano, sguardo assassino, naso ancora dritto. Saltella sul ring, ma non c’è ralenti, non c’è la cavalleria rusticana: il ballo si apre con il ritmo teso di Alfonso (basso) e Dived (batteria) finché non squilla la chitarra di Giacomo (voce, chitarra).
Mi riferisco alla copertina e ai primi secondi dell’unico full length omonimo di un power trio ferrarese ben rodato di nome Mirrorism, che alzò un'asticella già alta grazie ai lavori precedenti. Nel loro sito si può recuperare tutta la loro discografia a partire da una demo autoprodotta del 2011, in cui emerge un bel caratterino molto più figlio dell’hardcore-punk che dalle felici sperimentazioni del krautrock (Can e Faust su tutti) che aleggiano in questa ultima fatica.
A pensarci bene dovrei ricordarvi che l’album in questione ha quasi 11 anni. Questo è un Cold Case avvenuto nel 2014 e riportato a galla per quale motivo? Per un laboratorio? Forse, ma concentriamoci sul disco.
E prima di parlare delle tracce nello specifico, è importante notare un particolare saltato fuori durante l’intervista fatta a Giacomo (che potete leggere qui): per registrare il disco è stato usato un quattro piste a cassetta. Io non sono un tecnico, ma mi è parso di capire chiedendo in giro e curiosando (chi ha parlato di Reddit e ChatGPT? Guardate qua piuttosto) che usare un quattro piste al giorno d’oggi è fondamentalmente uno sbatti.
Giacomo ci lascia intendere che nel loro modo di fare musica, legato al DIY e all’autoproduzione, usarlo non fosse una questione di mezzi quanto una scelta.
Confrontato ad una registrazione digitale, l’approccio è molto più diretto e fisico, ma anche molto più limitante. Con solo quattro tracce, suonare con una strumentazione più varia come quella che si può ascoltare in Mirrorism, in cui talvolta compare un sax, talvolta una tastiera, una dodici-corde, un contrabasso e perfino un fottuto theremin (alla faccia dell’hardcore-punk), è una scelta che ti fa sudare. E, inutile dirlo, avrai un suono bello vintage, bello sporco, bello lo-fi, bello tutto, ma per ottenerlo in maniera decente devi suonare bene, non puoi modificare in corso d’opera.
Premesse fatte, occupiamoci della sostanza: l’ossatura dei brani è puramente (post)punk, e rimane più o meno la stessa per tutto l’album, fatta di linee di basso prominenti che dialogano con veloci riff di chitarra, anche se si distinguono per le tonalità molto acide. Le atmosfere? Quasi sempre molto cupe, in effetti le tracce sfilano una dietro l’altra che ci sembra di scivolare appesi a una sottile corda nei gironi danteschi. Ognuno, va da sé, con la sua particolare dose di follia e orrore.
E così quando sentiamo per la prima volta entrare in sordina la voce di Giacomo, l’impressione è che sembra uscita da una caverna per quanto è lugubre, per poi esplodere con rabbia e nervi tesi come un avvelenato e lucido (ancora per poco) Damo Suzuki.
Ma le influenze presenti nell’album sono molto varie e in più di un momento ci accorgiamo che la testa piccioneggia a ritmo di un bel groove, un tantinello disturbante forse e che ricorda molto il timbro metallico di certe chitarre usate nello psychobilly dei Cramps e dell’ormai tarantiniano Link Wray. Quando in White Jam compare un theremin – Personalmente lo associo ai visionari americani degli anni ‘50, (stra)fatti di fantascienza e incubi atomici, e “Excuse me maaan, can I borrow your spaceship?” – mi pare che il brano non faccia eccezione alla regola. Siamo finiti nel girone degli american diner maledetti.
Ogni traccia ha un carattere ben definito che riesce a distinguersi, ed è un punto di forza perché non si ha al contempo l’opposta impressione che siano episodi slegati tra loro. È un vortice, siamo stati catturati e ora ci tocca essere trascinati negli abissi.
Giusto Cold hands si distingue per una certa leggerezza, ma non per questo risulta un pezzo minore. Supportato da una tastiera funky e sempre dalle parti dei Can di “Ege Bamyasi”, si apprezza particolarmente per la vena ironica degli autori, che cantano insieme in un botta-e-risposta, fischiettano e ringraziano pure il pubblico alla fine del brano. Una breve pausa perché non va dimenticato: questa è una discesa agli inferi, e non c’è da stupirsi quando in Exiting, uno dei brani più lunghi, alcuni momenti sono caratterizzati da un ritmo rallentato e suoni che si fanno via via più rarefatti, tra un synth e un basso che sobbollono come in una solfatara prima di esplodere nel finale. Anche l’ultimo brano, Loose End, tiene insieme momenti più tesi con altri più morbidi, come una danza macabra. Le percussioni, il basso elettrico e un contrabbasso, unite ad una nenia (Re-lo-jes / Mi-nu-tos / Pa-sa-do / Ma-ña-na) ci portano finalmente in fondo.
Tie your future to your past
You can’t tie your future to your past
You’re just hanging
On the one loose end
Guardiamo in alto, non c’è più la corda per riportarci a galla, siamo costretti ad annegare in una chiazza nera di strumenti in totale anarchia. Infine, un rintocco che ricorda troppo Rebellion (lies)…mi vedo spuntare la Gruber, è forse lei il diavolo tricefalo? Il viaggio è finito, è tempo di conclusioni: se nella maggior parte dei brani si sente un buon equilibrio tra i momenti di calma, dilatati ma sempre scanditi dalla sezione ritmica incessante, e momenti noise in cui Giacomo invade i timpani con suoni squillanti, i brani più corti risultano gli episodi minori dell’LP: Renzo e Nihilistic pillow, confrontate con il resto, sembrano bozzetti hardcore con spunti interessanti ma difficili da mandar giù.
Alla fine dell’ascolto si può tranquillamente affermare che in Mirrorism si percepisce tutta la maturità di una band all’apice della creatività (e apice va detto solamente perché si sono sciolti immediatamente dopo l’uscita del disco, altrimenti chissà!), capace di scrivere brani ricchi di momenti di tensione, invettive punk, sperimentazioni sonore inusuali per il genere, suonato con grande competenza e tutto questo senza manco pigliarsi troppo sul serio. Proviamo a sentirlo insieme a certi Squid, Gilla Band, Protomartyr, che sono arrivati dopo. Cazzo se è invecchiato bene, fa la sua porca figura o no?
Insomma, avete l’onore di ricevere un destro in piena faccia senza il dolore che normalmente ne consegue, un pugno che non vi mette al tappeto ma vi ci fa sprofondare come il povero Mark Renton. Vi pare poco?
Emiliano Manni
Sentirsi giovani di nuovo: “Confusione” dei Kobra
L’hardcore americano in Italia fece presa abbastanza in fretta. Come nella propagazione di un terremoto, negli anni ‘80 emerse tutta una generazione di ragazzi armati di microfono e chitarre che sembrava non aspettare altro per mettersi a latrare contro il maledetto Sistema – probabilmente anche provocati dal sensibile declino del ruolo avuto dal prog e dal cantautorato nel definire la cultura del Belpaese alla fine degli anni ‘70. Oggi il futuro sembra impossibile proprio come allora, per via di un presente inquietante in cui le persone sono, nell’ordine: sempre più sole - famiglie e amicizie mai tanto carenti; intellettualmente pigre – non si legge, si disprezza la cultura, si mistifica la scienza; ammorbate in un oceano di cheap dopamine, nel privato quanto nel pubblico; confuse, poiché non sanno quali battaglie abbracciare.
E così, ci si crea una gioventù combattiva che non si ha mai avuto, per inventarsi speranze che ormai non si hanno più. Il risultato, può essere una scena musicale hardcore come quella attuale, fatta di band come i milanesi Kobra, e un disco come questo “Confusione”. Risultato questo che però concettualmente, storicamente, tecnicamente, porta con sé una serie di problemi su cui, al di là delle presunte migliori intenzioni, è bene soffermarsi e discutere. Al di là del fatto che codeste discussioni, di per sé, sarebbero già potute essere state fatte, e con minime variazioni contenutistiche, almeno vent’anni fa. Fatto che naturalmente ci introduce al primo punto della faccenda.
A monte, infatti, il problema dei Kobra è che non fanno tesoro dei risultati di quell’era memorabile per creare qualcosa di nuovo, ma riciclano quegli stilemi in funzione degli stessi messaggi.
Come se avessero di colpo ascoltato quei dischi, e si fossero pentiti di non averne fatto parte. Già questo è pazzesco, e squalifica la band in partenza, a prescindere dal fatto che abbiano cercato di creare un prodotto artistico oppure no. L’hardcore da loro proposto è un distillato puro, nel senso che non è contaminato da altri generi. Il che non è nulla di male, anzi potrebbe essere un grande merito; apportare un rinnovamento dell’hardcore attraverso l’hardcore stesso è un compito difficilissimo, ma i Kobra non hanno assolutamente intenzione di fare questo, vogliono solo “replicare la metodologia” dei loro eroi nei bei tempi andati.
Il panorama italiano ha davvero bisogno di band impostate verso quella direzione? E siamo certi che questa necessità di revival, “retromaniaca” come va di moda dire, non sia in realtà un elemento un po’ troppo extramusicale? Perché i Kobra hanno fatto esattamente quella cosa lì, e se mai questa operazione apparisse comunque nobile, è solo perché si ritiene che quei proclami anarcoidi sono significativi ancora oggi, che sono qualcosa di vivo in un presente che è morto. Ma è una mistificazione! Solo una rielaborazione personale, efficace, raffinata (qual era la parola proibita? Artistica!) della musica del passato può significare qualcosa, altrimenti tutto si riduce a un rito nostalgico. Fare hardcore significativo oggi non è impossibile, ma è molto difficile. Un approccio del genere non basta, perché la grammatica è la stessa - la politica è la stessa.
Finora si è però parlato in termini puramente ideologici. Entrando nello specifico del prodotto in sé, appaiono evidenti fin da subito gli altri suoi limiti. Anzitutto, la (auto)produzione è assordante in un modo artificioso che suona finto, reazionario.
I grandi gruppi hardcore degli anni ’80, specie nella prima metà avevano problemi di produzione non solo come scelta, ma anche per un’oggettiva carenza di mezzi, e sopperivano a questo con una combinazione straordinaria di fantasia urbana e carica emotiva.
Oggi celebriamo quell’epoca perché riconosciamo in quel casino una cifra stilistica e un messaggio degno di nota. Tentano di farlo anche i Kobra, forti di una scrittura abbastanza solida e testi ultrapessimisti - ma talvolta ingenui al limite del comico, vedi Sogni illusioni, ma ci torniamo - il che non sarebbe neanche male, se il disco fosse uscito nell’85. Ma qui siamo nel 2020, e non c’è nulla che questo “Confusione” esprima che non si ritrovi pari pari in EP come “Condannati a morte nel vostro quieto vivere” (Negazione, ‘85) o “La tua morte non aspetta” (Wretched, ‘86); o ancora, in una canzone da un minuto come Maggioranza/minoranza (Negazione, ‘84). Va da sé, allora, che tracce come Combatti e No futuro risultino così ovviamente referenziali al genere da esserne parodie. Questo è un particolare sconveniente, un indice di scarsa qualità della proposta. La parodia in musica naturalmente esiste e può essere un fatto artistico, ma “Confusione” si pone come un disco serissimo, e quindi questi scivoloni hanno solo l’effetto di un contrasto che non può che suscitare un senso di ilarità, inevitabilmente inquinando anche le arringhe migliori – esatto, sto pensando alla vecchia imbellettata di pirandelliana memoria.
Assodato che il malus storico/concettuale è insormontabile, va pur detto che a tratti i Kobra scrivono meglio di come suonano. Stella morta e Nessuna fiducia sono infatti fra le canzoni migliori, marcette a rotta di collo nel niente verso il niente nel miglior spirito hardcore. Il massimo che si può pretendere da questa musica, in fin dei conti, sta tutto in questo emblematico stordimento.
Ogni tanto un sax aggiunge una nota di colore alla formula. L’inserto è particolarmente efficace in Confusione, dove i suoi lamenti continui restituiscono un senso di desolazione che si abbina perfettamente al minaccioso incedere metal. Dentro Agli Schermi è un verboso inno luddista, uno sfogo comprensibile nel soffocante mondo ipertecnologico in cui siamo costretti a passare questo sputo di anni che è la nostra vita, e nello specifico la nostra giovinezza. Comprensibile, ma insufficiente.
Marco Ledri
Proiezioni sull’acqua che scorre
Quando l’ultimo dei canti lentamente si dissolve, resta solo il sudore, il disordine dei sensi, l’estatica spossatezza. Prima però, è successo davvero di tutto. Due passi in avanti e poi gli stessi indietro, molleggiando, sulle ginocchia, appena ingobbito, come animale ridicolo e infinitamente libero. Due passi in avanti, gli stessi poi all’indietro, camminare per andare in nessun posto che il viaggio è nella mente, migrazione cosmica al ritmo del dub.
Si chiamano ONDAKEIKI, hanno base a Milano e il loro incontro è un crocevia di esperienze musicali, diverse e spesso fortunate: Nicola Ferloni (Servant Songs, Pueblo People, His Electro Blue Voice), Giacomo Stefanini (Mirrorism, Kobra, Porta d’Oro) e Rella, “The woodcutter” (Everest Magma, Eternal Zio). “Canti, Vol. I”, è il loro esordio, in formato EP, parlarne, spendersi in roboanti analisi tecniche è impresa davvero ardua, che rischia di diventare persino futile. Impossibile farlo ad esempio dalla consueta distanza a cui si pone di solito il critico, ombra accigliata protesa allo studio dei tempi e dei modi, delle cause più che degli effetti. Meglio sarebbe invece sbrigliare le gambe, abbandonare il bordo della pista e la seduta Ikea della scrivania, lanciarsi a mulinare l’aria, sudando via qualsiasi contegno, anche a costo di riscoprirsi splendidamente ridicoli.
Istintivo è il passo, mistico l’orizzonte infinito della stanza, i piedi avanti e immediatamente indietro, in viaggio verso il niente per:
«lasciare andare l’ego e accogliere la forma dell’acqua».
Si insinua così, con questo monito sussurrato, il primo dei quattro canti raccolti in questo volume numero uno di chissà quale serie futura. Tra gli alberi sospesi, come primati metropolitani in rivolta immobile rinchiusi nella propria stanza. È una chiamata a raccolta, echeggia sinuosa fra i rami e fra i palazzi, assume forma ritmica e sembra nebbia incerta finché, di colpo, si dichiara arrogante in un riff di chitarra che scioglierebbe le riserve di qualsiasi critico da scrivania, costringendolo a scuotersi le ossa per camminare senza meta dentro al proprio appartamento.
Ci sono linee perpendicolari fra le mattonelle, delimitano rocce illusorie e non si può fare altro che saltarci sopra, oscillando sul mantra ipnotico del quattro quarti, evitando il più possibile di cadere in un baratro che è diverso per ognuno che ascolta, si chiama psichedelia, estensione della coscienza in doppia direzione, verso il fuori e verso il dentro, equilibrio solo apparentemente statico che a sbattere gli occhi puoi ritrovarti praticamente ovunque.
Wat Rong Suea Ten, è il tempio della tigre danzante di Chiang Rai, in Thailandia, meraviglia monocromatica in lapislazzuli verso cui potrebbe puntare qualsiasi percorso di illuminazione.
Oppure no, Nel tempio blu, seconda traccia in scaletta, travalica il limite dei concetti e si rivolge invece a una struttura immaginaria, architettura di cielo e mare che appartiene a tutti, così come dovrebbe essere qualsiasi geografia dello spirito.
Di certo c’è solo che, una volta varcata la porta della litania introduttiva, ci si spoglia di ogni ultima resistenza e il ritmo in levare diventa invincibile. Cuore pulsante, nervi tesi e gambe sciolte, questa è la proposta, formula a orologeria ben orchestrata dal connubio dei tre protagonisti, nell’amalgama di basso e batteria, su cui eterei svolazzano le chitarre e i synth.
È musica mistica quella che propongono gli Ondakeiki, certo, ma intesa come rito collettivo più che come sentiero individuale così che, immergendosi nei loro brani, diventa facile sognare che siano in tanti a danzare la stessa frequenza azzurra, con «l’oceano nelle vene», chiusi fra le proprie quattro mura. Verso mondi sconosciuti sembra voler dare adito ai deliri di chi scrive, riprendendo ogni ingrediente appena elencato per portarlo a un livello ancora più alto.
La voce che canta, perennemente imbevuta nella macchina sonora, sembra straziarsi in improvvise venature punk, tanto viscerale e così sensuale da ribadire ai gentili viaggiatori all’ascolto quanto il corpo, in questa esperienza, sia infinitamente più importante dell’anima e sia anzi l’unico mezzo per elevarsi davvero.
Se c’è acqua che scorre, come effettivamente c’è in ogni attimo di questo EP, è acqua viva e tortuosa, creatura guida, simbolo dell’unico possibile messaggio affidato alla musica.
La meditazione immobile non basta più, troppo facile confonderla con la posa flaccida di chi guarda il mondo attraverso gli schermi della tecnologia, il sudore, lucido sui corpi, è in grado di proiettare mondi altrettanto immaginifici, oltre lo spazio e oltre il tempo.
Akasaka Blitz, Tokyo, 28 dicembre 1998, ultimo concerto dei Fishmans, band mitologica del dub giapponese che appare, di colpo, sublimata dalle sonorità liquide della memoria, chiudi gli occhi, apri gli occhi e sei in un altro posto, in un altro tempo. Ecco cos’è, quella sensazione di conforto che accompagna l’ascolto degli Ondakeiki, ecco quale tipo di suggestione appartiene ai loro suoni e al loro messaggio. Se uno sa cos’è stato quel concerto a questo punto può anche commuoversi, per chi invece non sa neanche di cosa si tratti allora grande è la fortuna di poterlo scoprire. Così, con addosso la fatica dei giusti, arriva il momento di fare gli ultimi passi, lasciar scorrere l’acqua fra i piedi e alzare lo sguardo oltre se stessi, oltre la finestra aperta, Oltre il fiore esploso del cuore ormai stanco.
Ancora uno sforzo d’imbarazzo, forse l’ultimo, abbandonarsi all’immagine filmica dei primati scesi in strada, mano nella mano, abbracciati verso il fiume della riconciliazione degli esseri umani che tornano a essere umani. Viene da sorridere, ci si sente ridicoli, come dopo una ballo troppo scatenato, si ha solo la voglia di sparire da qui e farlo al più presto. Non è successo niente ovviamente, niente di quanto scritto è vero se non per chi davvero riuscirà ad abbracciare una proposta musicale come questa.
L’invito è quindi quello di alzarvi dalla poltrona Ikea e andare a un loro concerto, cercateli, annusate l’aria e seguite le vibrazioni dell’acqua, sfinitevi fino a non poterne più, fino a che il sudore vi rivesta di luce e allora, solo allora, sarà tempo di tornare a casa.
Alessio Esposito
Vi ricordo che gli appuntamenti con il laboratorio non finiscono qui, avremo per le prossime due domeniche due interviste e il martedì i rispettivi QUATTROPERQUATTRO.
Grazie per i tanti riscontri e il passaparola, a presto!