La traiettoria compiuta dalla musica Vocaloid negli ultimi vent’anni è una delle storie più interessanti e variegate che la cultura pop contemporanea possa raccontare. Da strumento indirizzato agli interni del settore a fenomeno di massa, quello che una volta era un mondo chiuso, accessibile solo tramite il passaparola fra appassionati, oggi ha contaminato irreparabilmente la nostra cultura.
Di per sé “Vocaloid” si riferisce a un software in cui si inserisce del testo che verrà cantato dal programma attraverso diversi filtri vocali che generalmente s’identificano con una “idol”, cioè una versione animata di una o un cantante pop.
È quasi impossibile, se si è dei discreti frequentatori del web, non essere mai venuti a contatto con almeno una delle molteplici installazioni di questo movimento: che sia attraverso video di fan entusiasti che raccontano il proprio amore per il genere, o per mezzo di estratti dei concerti caricati su YouTube (fra i quali figura una bizzarra esibizione dei più famosi idol digitali al Late Show di David Letterman), le vicende di questi “androidi vocali”, capitanati dalla imponente figura di Hatsune Miku, hanno fatto breccia nei cuori di milioni di occidentali. Anche le date dell’Hatsune Miku Expo 2024 Europe sono riuscite ad andare tutte sold out nel giro di pochi minuti, contrariamente a quello che avevano pronosticato i detrattori dei concerti condotti da ologrammi, complice anche una band di supporto di tutto rispetto.
Per quale motivo allora, se come abbiamo detto il movimento Vocaloid si è riuscito ad imporre con forza anche nel nostro paese, con migliaia di fan italiani che animano vivacemente forum e profili social dedicati a questa community, le riviste specializzate tacciono di fronte a questo clamore? Provate a digitare la parola “Vocaloid” nei motori di ricerca dei più famosi magazine musicali; ciò che vi troverete davanti, nei pochi casi in cui non comparirà la scritta “nessun risultato”, saranno scialbi articoli che trattano l’argomento riducendolo a mero fenomeno di costume, alla stregua dell’ultima innovazione in campo hi-tech. Ma qual è il motivo di questo silenzio? L’obiettivo di quest’articolo è quello di trovare una quadra in questa situazione, dare rilevanza ad una realtà che in Occidente non ha mai goduto del giusto interesse. Prima di fare ciò, però, dobbiamo comprendere cosa intendiamo quando parliamo di Vocaloid.
Come già detto, con il termine “Vocaloid” si indicano determinati software di sintesi vocale in grado di simulare prestazioni canore di avatar digitali, attraverso l’analisi e il campionamento delle voci di veri e propri doppiatori. Ogni Vocaloid si contraddistingue per una diversa voicebank, ovvero la banca dati vocale che contiene elementi come il timbro, l’intonazione e l’inflessione vocale di ogni programma, che in quanto tali variano di prodotto in prodotto. I primissimi software vennero messi in commercio nel 2004 da Yamaha, che metteva a disposizione un plugin con voce maschile, Leon, e uno con voce femminile, Lola. Il prodotto non vendette quanto sperato, forse a causa dell’anonima copertina (più che un programma di sintesi vocale sembra quasi rappresentare una scatola di preservativi) o forse perché le due voci erano state esplicitamente pubblicizzate come emuli dei più celebri autori neo-soul di fine anni novanta, in un periodo in cui il genere continuava a perdere sempre più interesse agli occhi del pubblico.
Tra i pochi utilizzi degni di nota di queste prime due voci spiccano l’apparizione di Lola nell’album del 2005 “Light + Shade” di Mike Oldfield e nella musica del film Paprika (Satoshi Kon, 2006), e un’inclusione di Leon nel progetto russo “A Place in the Sun”, album di Alexei Ustinov dalla spiccata attitudine diy, 14 tracce dance sovrastate dalla voce robotica di Leon, ribattezzato “Lëlik” per l’occasione, che farfuglia frasi al limite del nonsense in una lingua mista tra il russo e il giapponese. Neanche la terza voce della prima serie Yamaha, Miriam, ebbe molto successo; il tentativo di imporsi sul mercato statunitense si rivelò un buco nell’acqua, e per un po’ tutto tacque.
Nei successivi tre anni la Crypton Future Media, dopo aver acquisito il motore di sintetizzazione da Yamaha, tentò allora la via dell’Oriente, e finalmente raggiunse i primi risultati con la voicebank Meiko, controparte femminile del suo compagno Kaito, che fu meno fortunato a livello commerciale; il rapporto di copie vendute è di sei ad uno per Meiko, disparità che rivela già agli albori un trend che porterà i Vocaloid femminili ad avere sempre più appeal sul grande pubblico. Gli ingranaggi stavano finalmente cominciando a girare nella direzione giusta, e anche l’art style scelto per questi due lavori era molto più consono a un prodotto del genere, uno stile chibi ma accattivante che si inseriva a metà strada fra l’innocenza di un’idol e la sicurezza di una protagonista di un anime action. Nessuno però si sarebbe potuto aspettare quello che sarebbe successo nel 2007 al rilascio del secondo modello Vocaloid, chiamato con non troppa creatività Vocaloid2.
Questa release portò un successo insperato in casa Crypton. Nella prima settimana vendette più di quanto avessero venduto i precedenti modelli in oltre un anno, e fece acquisire ai vocaloid, fino ad allora confinati al ruolo di feticcio tecnico d’avanguardia, lo status di fenomeno di massa. La mascotte che accompagnò questa prima release in Giappone, Hatsune Miku, raggiunse rapidamente lo status di star, rimanendo ancora oggi, dopo infinite re-release, la voicebank di gran lunga più venduta e più conosciuta anche dai non appassionati. Le motivazioni di questa popolarità acquisita in brevissimo tempo sono molteplici: da un lato l’utilizzo di sample vocali reali permise a questa tecnologia di acquisire maggiore realismo e alle canzoni di risultare più immersive, mentre l’ascesa del servizio di streaming Nico Nico Douga (una sorta di risposta giapponese al successo di YouTube), fornì ai primissimi produttori un luogo dove poter condividere le proprie creazioni e dove ascoltare quelle degli altri.
L’effetto valanga fu quasi scontato: se i primissimi lavori virali erano poco più che degli scherzi, come nel caso della cover di Levan Polkka, ballata popolare finlandese stravolta in demenziale parodia, con una Miku che borbotta parole prive di senso mentre agita preoccupata un porro, non ci volle molto perché diversi artisti si rendessero conto del potenziale che un tale strumento poteva esprimere; il sound di questa prima ondata mescolava la voce cibernetica di Miku ai ritmi forsennati della breakcore; canzoni come Packaged di kz o みく みく に して あげる (Miku Miku ni shite ageru) di Ika recuperano la frenesia di anime come Initial D e Gurren Lagann, mantenendo però una struttura abbastanza classica. I testi erano il vero fiore all’occhiello di quei primi lavori: 恋スル (Koisuru Vocaloid) di OSTER project, ad esempio, sfonda la quarta parete ironizzando sulla condizione di essere una cantante digitale, riferendosi direttamente al suo produttore criticandone la poca praticità nello sfruttare uno strumento così innovativo.
Bisognerà però aspettare la fine del 2007 per vedere uscire dalla propria nicchia il fenomeno Vocaloid: il 7 dicembre viene pubblicata su Nico Nico Douga la canzone メルト (Melt) di Ryo, già membro dei Supercell, che rapidamente raggiunge il primo posto nella classifica dei video più visualizzati sul sito, mantenendolo per oltre due settimane. Definita da molti come “la più importante canzone vocaloid della storia”, agli occhi di noi occidentali sembra soltanto una banale canzone d’amore, nella quale il gruppo impersona una Miku che tenta disperatamente di farsi notare dalla sua cotta. Questa storia melensa sembra fin troppo stereotipata anche per il pubblico giapponese, che di cliché si nutre dalla mattina alla sera, e allora perché tutto questo successo? Forse la risposta è da ricercare nella complessità armonica o strutturale del brano? No, anche qui non andiamo troppo lontano dalle prime sperimentazioni di OSTER project o di Ika.
La risposta a questo dubbio l’ho trovata nel posto più inimmaginabile, dentro ai racconti di una serata passata in mezzo ai puzzolenti divani di un karaoke. Il professore universitario Rafal Zaborowski, spinto da simili dubbi, racconta in un suo articolo di un incontro con dei salaryman giapponesi, intenti a cantare a squarciagola questa canzone; alla domanda sul perché la trovino così emozionante, uno di questi uomini, un signore di mezza età, risponde singhiozzando che: «Vedi, quella non è la vera Miku. Interpreta una parte. Sta provando ad essere più carina, più femminile, con quel vestito rosa e tutto il resto. Tutto per impressionare quel ragazzo. Ma lei non è così, è soltanto una messinscena».
Ciò che porta gli ascoltatori ad immedesimarsi nelle canzoni di questi cantanti digitali non sono infatti la qualità dei testi, ma il rapporto che intercorre fra il loro significato e la ben riconoscibile personalità del proprio idolo digitale. Melt funziona perché il personaggio di Miku, per come era stato presentato ed interpretato dal web, non si sarebbe mai prestato a comportamenti del genere, e la rilettura a posteriori di tale testo in chiave metanarrativa aggiunge profondità ad un pezzo che, se viene preso di per sé, risulta una banale ballata. È questa la chiave interpretativa per comprendere il motivo per cui il fenomeno Vocaloid ebbe un impatto così dirompente nelle vite dei giovani giapponesi.
Seguire la storia di Miku, raccontata sì da autori diversi, ma tutti attenti a mantenere intatta la sua caratterizzazione, ricorda più da vicino la visione di un anime rispetto che all’ascolto di un disco.
Prima che produttori come Wowaka o Hachi cominciassero a mettere in primo piano la figura dell’autore, seguire la scena Vocaloid significava affezionarsi prima di tutto a dei personaggi di fantasia, e seguire le loro avventure di video in video. Ancora oggi l’universo Vocaloid è un mondo vastissimo in cui la musica è soltanto una manifestazione, forse sì la più preponderante, ma non l’unica.
Non a caso autori come Akuno-P o Kurousa-P hanno visto le proprie canzoni adattate in manga, light novel e addirittura spettacoli teatrali, rappresentando dei veri e propri casi mediatici. Non c’è da stupirsi quindi se da noi la copertura mediatica riservata a questa scena sia stata sempre abbastanza irrisoria: questa non è musica che si degusta sulla puntina del proprio giradischi, con il libretto dei testi sottomano, ma è musica che prima di essere analizzata va innanzitutto vissuta, vissuta emozionandosi guardando gli orribilmente melensi video 3D creati da dodicenni con il software gratuito MikuMikuDance oppure perdendo il fiato giocando su di un unto cabinato di Dance Dance Revolution.
Non a caso la cultura Vocaloid si è sempre mescolata a quella videoludica, anch’essa pesantemente trascurata dalla stampa di settore, con la conseguenza che videogiochi come Hatsune Miku: Project Diva, che hanno avuto il merito di portare in occidente i maggiori successi di questa scena, sono sempre stati trattati dalle nostre pubblicazioni come degli emuli del più blasonato Just Dance. La disparità di trattamento riservata a queste diramazioni del contemporaneo, entrambe accomunate dall’origine nipponica, è un qualcosa di inaccettabile.
È quantomai necessario un processo di rivalutazione di questi media, che parta dal basso per coinvolgere anche le pubblicazioni più mainstream.
Basti pensare a lavori di pregio come quelli di Utsu-P, che già nel 2008 affrontava discorsi artistici sull’alienazione mescolando sonorità djent alla voce robotica di Miku, dando vita ad un inquietante contrasto unico nel suo genere, o del calibro di “The End” di Keiichiro Shibuya, opera transmediale che abbraccia il mondo della musica orchestrale, del teatro e delle arti performative, per raccontare la morte vista dagli occhi di una IA. Non bisogna nemmeno sottovalutare l’influenza che questi autori hanno avuto sui produttori occidentali: Porter Robinson, che in questo è sempre stato un visionario, non ha mai fatto segreto del suo amore incondizionato per questa scena, avendo anche utilizzato la Vocaloid inglese Avanna per alcune canzoni del suo album “Worlds”.
In un’intervista pubblicata in occasione del rilascio di una voicebank modellata sulla sua voce, Po-Uta, Robinson ha definito alcune caratteristiche peculiari dei Vocaloid come «la familiarità aliena, la dolcezza, e le strane emozioni che accompagnano una voce digitale» elementi necessari per convogliare sentimenti legati alle memorie fatte in mondi immaginari. Ma allora perché è necessario riscoprire questa musica, soprattutto oggi che l’epoca d’oro di questo sembra essere passata?
In primo luogo, e qui parlo in quanto appassionato di innovazioni tecnologiche che hanno avuto un impatto sulla cultura pop, perché rappresenta un passaggio fondamentale per comprendere l’evoluzione della musica elettronica negli ultimi venti anni. Nella stessa intervista citata sopra, Porter Robinson definisce questa tecnologia come la naturale evoluzione di strumenti come vocoder e talk box, e allo stesso modo mi sento di trovare un parallelismo fra di essa e le voci artificiali generate dall’IA. Non è un caso se in questi ultimi vent'anni, quelli che vanno dalle futuristiche invenzioni dei Daft Punk e l’uscita di programmi come Suno AI e Soundraw, le riviste musicali hanno smesso di parlare di queste innovazioni, Salvo poi tornarne a parlare in pompa magna quando l'esuberante creatività del web ha accolto il fenomeno.
Gli anni che ci siamo persi, quelli in cui il mercato si era spostato in Giappone, sono l’anello di congiunzione che ci manca per comprendere quanto questa rivoluzione non sia stata poi tanto improvvisa, quanto in realtà frutto di innovazioni relativamente graduali ed omogenee. Da un altro punto di vista, invece, riscoprire questo fenomeno culturale rappresenta un’occasione per confrontarsi con sensibilità diverse dalla nostra. La visione “totale” dell’arte per i giapponesi è una doccia fredda per chi è abituato alla parcellizzazione tipica della nostra cultura; opere come “The End” si avvicinano ad alcune tensioni che nella nostra storia sono relegate a periodi ben precisi e confinati nel tempo, che con il passare degli anni risultano sempre più distanti dalla nostra sensibilità.
Che vi vogliate approcciare a questo mondo perché interessati alla sua componente geek, all’impatto che ha avuto sulla cultura pop o semplicemente per pura curiosità, vi troverete davanti ad una community che vi accoglierà a braccia aperte; wiki fanmade, forum in cui utenti si scambiano teorie sui rapporti fra questo e quell’altro Vocaloid, e ancora tutorial su come creare questa musica per appassionati alle prime armi o lunghi video essay volti a sviscerare il contenuto di canzoni all’apparenza banali. Insomma, non rimarrete certamente delusi dalla mole di contenuti che questo nutrito gruppo di fan è riuscito a creare in questi anni. Questo articolo non è da intendersi quindi come un circuito chiuso, un wall of text fine a se stesso; il nostro è un invito ad ampliare i propri orizzonti e ad uscire dalla propria comfort zone, ad affrontare quel disagio che si prova ogni volta che si mette piede in un territorio sconosciuto, per assaporare la gioia di scoprire una nuova passione nel posto più inaspettato.
Cosa ascoltare?
Non esiste un percorso schematico da seguire per comprendere questa musica; lungi dall’essere una disamina esaustiva di tutto quello che questa scena incredibile ha da offrire (per operazioni del genere vi rimando al box set creato dalla community di Rateyourmusic), la selezione qui proposta si pone l’unico obiettivo di fornire un punto di partenza, una sorta di cassetta degli attrezzi, nella speranza che accenda in alcuni di voi la curiosità di approfondire un mondo che, ancora oggi, incanta milioni di persone.
Ypl - Garbage Collection (2009)
Questa deliziosa raccolta di brani psichedelici rappresenta una peculiare anomalia in quel caleidoscopio di generi rappresentato dalla prima scena Vocaloid, passato purtroppo sotto i radar degli ascoltatori occidentali. Quella proposta da Ypl in questo disco è la commistione tra l’indie rock jazzato dei Spangle Call Lilli Line e le tensioni ambient/lo-fi degli Animal Collective, sulle quali volteggia amabilmente la voce di Miku, accompagnata per l’occasione dalla sua collega Luka Megurine. Se è vero che non tutti i brani sono ugualmente ispirati (la seconda metà dell’album risulta a tratti forzata, soprattutto se confrontata con alcune idee presenti nella prima), l’ascolto della onirica 落下感 (Rakkakan) dovrebbe comunque essere sufficiente per convincervi a dargli quantomeno una possibilità.
Hachi - Official Orange (2010, Reissue Records)
“You only play around with cannibalism / and words with the singing android”; con queste frasi criptiche e cupe si descrive Hachi in パンダヒーロー (Panda Hero), brano di apertura di “Official Orange”. L’estetica di Hachi, che si colloca idealmente nei deserti postapocalittici tipici di saghe come quella di Mad Max, mescola il nichilismo del suo autore, che non fa mai segreto della propria turbolenta vicenda autobiografica, alla stereotipata figura di Miku, decostruendola attraverso brani dal forte impatto emotivo come 神様と林檎飴 (Kamisama to Ringo Ame) o 眩暈電話 (Vertigo Phone). Gli arrangiamenti, questa volta varissimi, riescono agilmente ad impostare crescendo epici, (la marcia orchestrale di 演劇テレプシコーラ(Engeki Telepsychola)), che esplodono poi nella grezza accozzaglia di riff di むすんで ひらいて らせつ と むくる (Musunde Hiraite Rasetsu to Mukuru) e 病棟305号室 (Byoutou 305 Goushitsu). La sezione ritmica, inoltre, prende spesso e volentieri il sopravvento, mettendo in secondo piano la voce, che diventa semplicemente un altro elemento di sottofondo, con l’unico scopo di amplificare la sensazione di tormentato estraniamento dall’autore.
Wowaka - アンハッピーリフレイン (Unhappy Refrain) (2011, Balloom)
Dire qualcosa di non banale su quello che, a distanza di quasi quindici anni, è l’album vocaloid più apprezzato nella breve storia di questo genere non è un lavoro semplice, soprattutto quando la prematura morte del suo autore ha comportato l’ascensione delle sue opere al grado di capolavori trascendentali. Pezzi come ローリンガール (Rolling Girl) o la title track アンハッピーリフレイン (Unhappy Refrain) sono dei veri e propri anthem per i fan di questo artista, e la loro inclusione nella setlist del tour europeo di Miku non ha fatto altro che confermare l’importanza di queste composizioni. Ciò che mi limiterò a consigliare a quei pochi che non conoscono questo disco leggendario è di considerare l’enorme impegno del suo autore nel mettere in primo piano la figura del produttore rispetto a quella della voicebank utilizzata: mai viene menzionata Miku, nè nei crediti delle canzoni nè nelle splendide copertine minimali, la cui palette in bianco e nero contrasta con lo sgargiante azzurro che stereotipicamente si associa alla cantante digitale.
HikkieP - Eutopia (2012, Ginga)
“Eutopia”, “il posto buono” in greco, è il punto di arrivo raggiunto dalla ricerca sonora di HikkieP, nome d’arte di Tomooki Otaka. La portata monumentale di questo lavoro (27 brani!) permette a Otaka di impostare un racconto sonoro dall’ampio respiro stilistico, che spazia fra i ritmi breakbeat dell'iniziale The Sound of Air Raid e le deflagrazioni di Illness Continues, che sembrano fare l’eco alla Jet Pet dei Royal Trux. Un ascolto ragionato dell’album rivela però una consavolezza oltre quell’apparentemente invalicabile muro sonoro; nella coda di The Following Years of Sensation Otaka non ha paura di adottare soluzioni più orecchiabili, mentre nel crescendo in quattro atti di Raincoat / Admiration / Disgust / Understanding strizza l’occhio alla plunderphonics di John Oswald.
Neru - Cynicism (2018, NBCUniversal Entertainment)
Non lasciatevi ingannare dai colori sgargianti della copertina di quest’album o dall’accattivante stile cartoon dei video di SNOBBISM o di い ~ や い ~ や い ~ や ( I~ya I~ya I~ya); dietro una vivace patina electro funk, le canzoni di “Cynicism” celano una profonda disillusione nei confronti della società giapponese, svelando col procedere degli ascolti lati sempre più oscuri di questa nazione. I primi a farne le spese sono gli stessi appassionati di Vocaloid: il protagonista di 脱法ロック (Dappou Rock) è un giovane hikikomori, ritratto causticamente come un ragazzo incapace di fare i conti con il ritmo asfissiante del mondo del lavoro. L’unica sua passione, il mondo dell’intrattenimento (con riferimenti espliciti a figure come le idol e, in particolare, Miku), finisce per inglobarlo, annullandone i sogni e le speranze. Per certi versi, l’album condivide la stessa propensione alla satira sociale della saga videoludica Persona, sicura fonte di ispirazione anche nello stile jazzato e acido di brani come くたばろうぜ (Kutabarouze) e にひると すいぼつとし (Nihiruto Suibotsutoshi).
Iyowa - 映画、陽だまり、卒業式 (Films, Sunny Spots, Graduation) (2024, Igusuri Records)
È un vero peccato che l’ultimo album di Iyowa (“stomaco debole” in giapponese) non abbia avuto grande riscontro da parte del pubblico occidentale. Nella proposta di Iyowa infatti si incontrano melodie art pop di matrice squisitamente giapponese e sferzanti aggressioni progressive, e in un periodo storico in cui ad emergere sono lavori come il synth pop avanguardistico di Magdalena Bay e il blues obliquo di Geordie Greep, la musica di questo “映画、陽だまり、卒業式 (Films, Sunny Spots, Graduation)” non sfigura certo al confronto. Le 24 tracce del disco, diviso idealmente in due parti, sviluppano ulteriormente la palette musicale dei precedenti “ねむるピンクノイズ (Sleeping Pink Noise)” e “わたしのヘリテージ (Watashi No Heritage)”, arricchendosi di nuove vivaci sfumature. Ogni brano della prima metà dell’album è collegato idealmente ad uno della seconda metà (nell’ordine in cui alla prima traccia corrisponde la tredicesima, alla seconda la quattordicesima etc..), scelta stilistica che permette al produttore di creare contrasti inaspettati e di mettere in discussione il proprio repertorio: le progressioni armoniche in continuo mutamento di Run to Celebrate si scontrano con i poliritmi incalzanti della sua controparte Create Girl, mentre l’atmosfera epica di Heat Normal viene smorzata dalla dissacrante ironia di Heat Abnormal. Questo disco, che si nutre di attriti, consacra definitivamente la figura di Iyowa nel pantheon degli artisti Vocaloid più interessanti degli ultimi anni, sempre in grado di rinnovare se stesso e le proprie idee.
ex. happyender girl - 夏のハッピーエンダーガール - re: summer (never) ends [remembrance] (2025, happyend recordings)
La storia delle contaminazioni shoegaze nella scena Vocaloid è particolarmente feconda e interessante; intorno a progetti come “mikgazer”, serie di compilation tematiche sull’incontro fra questi due mondi, si è creato negli anni una specie di culto, e alcuni artisti venuti fuori da quelle raccolte oggi sono fra i più ascoltati del genere (Moff-P ne è l’esempio più eclatante). Non c’è da sorprendersi quindi davanti alla scelta di ex.happyender girl, una delle voci più poliedriche del panorama Vocaloid contemporaneo, di pubblicare una serie di “live set” digitali, nei quali il produttore rivisita le sue vecchie creazioni in chiave noise pop. Questo terzo capitolo, finora il più ispirato, trasforma quelli che nell’originale “summer never ends” erano poco più che dei jingle abbozzati in composizioni dalla forte componente emotiva, sulle quali la voce robotica di miku è implementata sorprendentemente bene. Provate a confrontare la sterile melodia della opener 夏を結う (natsu o yū) con la sua controparte del 2025; la differenza è innegabile. L’ascolto guadagna punti, inoltre, se accompagnata dalla visione del set caricato su YouTube: se si riesce ad oltrepassare il leggero retrogusto distopico provocato da un modello 3D che ride e scherza davanti ad un pubblico di poltrone inermi, questo “re: summer (never) ends” resta una delle esperienze più stimolanti di questo inizio 2025.
Articolo a cura di Lorenzo Antuori con la collaborazione della redazione.
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