Un microfono, il proprio corpo e la propria voce. Questi sono gli elementi essenziali del poetry slam, le famose competizioni di poesia performativa in cui diversi poeti si sfidano di fronte a un pubblico declamando i loro versi. Ma cosa succede quando questo mondo e la sua religiosa contemplazione della parola incontrano la forza dirompente del ritmo e del suono?
Diversi artisti hanno ibridato le potenzialità espressive combinate di poesia e musica in un sottobosco florido di sperimentazioni, approcci ed estetiche di una vastità di cui quasi non si riescono a vedere i confini. Un mondo spesso offuscato e visto come altro rispetto all’universo musicale da critica e pubblico, ma che merita invece di prendere il proprio spazio ed essere riconosciuto anche dalle orecchie degli appassionati di musica, specialmente di chi ricerca artisti che osano nel tentativo di comunicare qualcosa di nuovo.
Ho dunque selezionato quattro progetti italiani di spoken music (Libera, Mezzopalco, Premio Dubito, Vipera), anche molto diversi tra di loro, per tentare di restituire la complessità di un fenomeno in continua espansione, scegliendo di farlo attraverso interviste in quanto mi sembrava giusto permettere, a chi si occupa di voce, di lasciar risuonare la propria piuttosto che imporre la mia.
Buona lettura.
Per prima cosa, invece di lanciarsi subito nelle ibridazioni tra poesia e musica, forse è meglio approcciare le due cose separatamente. Ed è questo un aspetto che mi ha molto colpito di Libera, lo spettacolo di Cecilia Lavatore (poetessa del collettivo Spoken - Poesia e Rivoluzione e campionessa regionale per il Lazio nel 2023 e 2024) e La Noce (cantautrice e polistrumentista) dove diverse storie di donne prendono forma nello scontro tra i loro approcci artistici, così vicini eppur così determinati a restare loro stessi.
Dove e come nasce la vostra collaborazione?
Cecilia Lavatore: La primissima volta che ascoltai Marta (La Noce, ndr) dal vivo fu in un locale chiamato Sinestesia, che si trova a Roma nel quartiere Montesacro. Anche se in realtà ci seguivamo già a vicenda sui social, forse per via degli algoritmi.
La Noce: In realtà io l’avevo già vista fare slam poetry ad un open mic ed ero rimasta folgorata da questa sua energia fuori dal comune. In quell’occasione tuttavia ero abbastanza a disagio per varie questioni, e ricordo di averla trattata malissimo.
C.L.: Si, quel giorno sembrava molto nervosa e antipatica. Ma nonostante questo, l’avevo vista esibirsi e mi era parsa da subito un fenomeno, con questa sua voce fortissima che mi investiva nello spazio ristretto del locale. Ho pensato fin dal primo momento di voler lavorare con lei, ma quel giorno proprio non siamo riuscite a presentarci. Poi dopo mesi ci siamo ritrovate di nuovo casualmente in questo open mic Al Muretto, un locale nel quartiere San Lorenzo. Ricordo che ero spaventatissima perché io avevo cominciato da pochissimo a fare poetry slam e non percepivo l’atmosfera giusta.
L.N.: Quella sera eravamo molto eterogenei: c’era una band al completo, una ragazza con la drum machine, io con la chitarra e poi c’era Cecilia.
C.L.: Ero spaventatissima e mi sono praticamente illuminata quando l’ho vista, perché era l’unico viso che conoscevo! Quindi abbiamo chiacchierato, mi ha molto rassicurato e ho capito che la prima impressione che mi ero fatta di lei era totalmente sbagliata, così le ho chiesto se le andava di esibirsi con me sul palco. Ti dirò, non è andata benissimo: io a un certo punto mi sono dimenticata le parole, a Marta saltò una corda mentre suonava ma comunque improvvisando abbiamo portato a termine l’esibizione ed è stata davvero una figata! Sono tornata a casa pensando che era proprio la mia alleata, che ci volevo lavorare insieme di nuovo.
In Libera poesia e musica sono come due blocchi rigidi e separati, che solo raramente si incontrano. Sono del parere però che, quando lo fanno la cosa funzioni e anche molto bene. Come mai la scelta di non ibridare più strettamente i vostri linguaggi?
L.N.: Credo che la forza di Libera sia nelle nostre energie e personalità, in due identità artistiche diverse che coesistono nello stesso momento sul palco. Non volevamo creare una dinamica in cui una doveva essere funzionale all’altra ma piuttosto lasciare che la sinergia che creiamo fosse qualcosa di più irrazionale, che la nostra chimica si esprimesse non in un’interazione tra i linguaggi ma nel nostro allearci in qualcosa di potente, in un messaggio che è strettamente legato alle nostre vite. Dopotutto sia le mie canzoni che le poesie di Cecilia presenti nello spettacolo esistevano già da prima, e ciò che abbiamo fatto è solo mostrare entrambi i nostri mondi in un percorso parallelo. Abbiamo fatto delle prove di ibridazione tra la sua poesia e la mia musica, ma sentivamo che era come se il prodotto finale fosse qualcosa che voleva a tutti i costi indurre lo spettatore a provare una certa emozione.
C.L.: Potremmo dire che Libera è uno spettacolo che lavora per deduzione e non per induzione. Detto questo, a volte replica dopo replica ci capita di sperimentare delle soluzioni insieme mentre stiamo facendo le prove, che poi magari portiamo sul palco per vedere come reagisce il pubblico. Ma non è quello il nostro obiettivo.
L.N.: Puntiamo più a trovare dei raccordi piuttosto che un tappeto. Una componente per noi molto importante è ad esempio lo spazio che abbiamo a disposizione: in un teatro c’è un addetto alla luce che può spostare l’attenzione verso l’una o verso l’altra, ma quando ci esibiamo nei club e questo non è possibile ci affidiamo molto a questo tipo di raccordi per unire le nostre narrazioni. Poi si decide cosa tenere o meno in base a come reagisce il pubblico. Ad esempio con “Centouno”, una delle poesie di Cecilia, una sera ho provato ad accompagnarla sul palco con qualche accordo e ha funzionato così bene che abbiamo canonizzato quel momento, ma magari abbiamo provato a fare lo stesso con altre poesie e funzionava meno, quindi abbiamo smesso di farlo.
C.L.: Mi sento poi di citare Matteo Gabbianelli, che è il nostro manager e produttore. Matteo ha visto tantissime repliche e versioni dello spettacolo in tantissimi contesti diversi ed è per noi una sorta di metro sulla salute dello spettacolo. Tante modifiche che sono avvenute e che stanno avvenendo sono spesso sotto il suo consiglio.
Libera vedrà anche una release su Spotify l’11 aprile come vero e proprio album in bilico tra cantautorato e spoken word. Perché? Non pensate che, spogliato della componente performativa, lo spettacolo possa perdere di impatto ed efficacia?
L.N.: La storia è che, mentre giravamo con Libera, io stavo in contemporanea lavorando al mio primo disco da solista per l’etichetta KuTso Noise Home, per cui avevo già una serie di brani pronti. L’idea di coinvolgere Cecilia nel disco è venuta solo dopo a me e Matteo (sempre Gabbianelli, anche proprietario della KuTso Noise Home, ndr). Pensavamo che i nostri due atteggiamenti molto diretti avrebbero creato qualcosa di originale e inaspettato e inoltre era impossibile non notare la grande connessione quasi involontaria che c’era tra i miei testi e le sue poesie. E il risultato è stato questo disco di 21 tracce tra le mie canzoni e le poesie di Cecilia, con qualche raccordo tra le due.
C.L.: Tutto materiale che, come per lo spettacolo, cerca di non fare una drammaturgia e restituisce più che altro questo casuale incontro tra le nostre due individualità, simili ma allo stesso tempo diverse. Credo inoltre che il disco rimarrà un prodotto genuino anche grazie a come lavora Matteo. Mi viene in mente per esempio il passaggio che c’è tra “Laurentina” (questa breve poesia che scrissi al semaforo di questa strada dove c’è sempre traffico) e la title track “Libera”, come se tra le due passasse una sorta di vibrazione condivisa, un’onda che parte dalla mia poesia e continua nella canzone.
Come poetessa e cantautrice, sicuramente il vostro è un lavoro soprattutto di parole. Cosa pensate che la musica aggiunga ad un testo e cosa invece può togliere?
L.N.: Credo che la musica sia un linguaggio irrazionale. Scrivere è sicuramente qualcosa che si colloca nell’ambito della ragione, ma suonare ti porta immediatamente fuori da quel binario. Ho scritto sia cose più ragionate spinta dalla volontà di veicolare dei concetti, come “Vai Via” che è un semplice racconto di violenza domestica, sia alcuni pezzi fatti di immagini non pienamente coscienti come “Nuotare”. Preferisco sempre cantare i pezzi che non mi sono ancora chiari, ma credo che alla fine sia compito dell’ascoltatore sciogliere i nodi. Cecilia mi piace proprio perché ha un suo schema razionale ma alla fine la sua è una scrittura di pancia, ed è per questo che colpisce davvero. Poi comunque il mio background è più nella musica black, nel country e nel soul che nel cantautorato, e non mi spaventa quindi che qualcuno non ascolti a fondo le mie parole perché dopotutto in quel processo creativo c’è anche una ricerca sonora di un certo tipo. Sono più interessata allo scambio di energie col pubblico.
C.L.: Dopotutto anche se non interagiamo chissà quanto con loro durante lo spettacolo, anche i loro sguardi ci restituiscono qualcosa e mi spiazza sempre ad esempio esibirmi di fronte ad un pubblico al buio. Sento la necessità di dover entrare in contatto con loro.
Tre musicisti che ti hanno influenzato molto in quello che fai (a Cecilia) e tre poetry slammer/poeti/scrittori (a La Noce)
C.L.: Sarò scontata, ma non posso non citare Fabrizio De Andrè. Ricordo proprio quando lo ascoltavo alle medie e speravo, un giorno, di essere anche io in grado di scrivere qualcosa che avesse dentro tutta quella vita. Negli ultimi anni sto ascoltando molto Vasco Brondi, che sicuramente scrive in un modo molto diverso da me ma mi apre a parecchie riflessioni. Infine, sono molto affezionata ai testi di Appino degli Zen Circus.
L.N.: Io citerei Alda Merini, dato che mi affascina molto quella dimensione umana e del dolore e penso che sia difficilissimo sublimarla in poesia. Mi piace anche molto tutta la Beat Generation, quel modo di far musica con le parole in maniera vera e dissacrante con cui riescono a togliere un po’ quella patina retorica della vita. Infine leggo molto Massimo Fagioli, uno psichiatra e saggista che nei suoi libri attinge molto dalle immagini che vengono fuori dal non cosciente e dai sogni.
Se da un lato poesia e musica è come se comunicassero attraverso una piccola fenditura nella parete, c’è invece chi decide direttamente di sfondare il muro. Il progetto Mezzopalco (Riccardo Iachini, Toi Giordani e Ninjoh Beats) è in questo caso un esempio incredibile della potenza espressiva della voce, di come questa possa plasmare da sola un universo sonoro in grado di ospitare in perfetta armonia hip-hop, drum’n’bass, techno, teatro, poesia.
Come e quando nasce il progetto Mezzopalco?
Nasce più o meno nei primi mesi del 2018, all’interno del collettivo Zoopalco che avevamo fondato qualche anno prima insieme ad altri artisti e performer. Fin dalla sua nascita Zoopalco si è sempre occupato, potremmo dire, di “tutta quella poesia che non sta sui libri” e attraverso l’organizzazione di vari eventi, poetry slam, confronti, scambi e ricerche sono nate le prime performance di coppia in un nucleo iniziale formato da Toi e Riccardo. Era già evidente un comune interesse per l’ibridazione di poesia e musica (pur se magari da angoli diversi), ma ci univa soprattutto l’idea di creare un progetto di ricerca vocale, qualcosa dove tutti gli aspetti musicali, armonici e ritmici potessero essere gestiti e creati solo attraverso l’uso della voce; da qui il coinvolgimento di beatboxer con Mollo Beats inizialmente a cui è seguito Ninjoh, che è con noi ancora oggi. Siamo quindi partiti da qualche testo che avevamo già scritto e che abbiamo musicato a ridosso della scadenza del bando di partecipazione al premio Dubito del 2018, che abbiamo vinto.
Come nasce e si sviluppa un vostro pezzo?
Credo che il nostro approccio vari abbastanza a seconda se parliamo del nostro primo spettacolo (e disco) Impre o di Anse, che stiamo in questo periodo portando in giro insieme alla compagnia teatrale Usine Baug. Impre nasce ad esempio dagli stimoli che ricevemmo da un convegno di poesia a cui eravamo stati a La Spezia, e tratta un po’ di tutti quegli autori per noi imprescindibili dell’oralità occidentale. Abbiamo quindi voluto scrivere di questi diversi personaggi entrando dentro le loro storie e cercando di costruire per ognuno di essi un ambiente sonoro, una catena di riferimenti, di rendere palesi gli stimoli che ne avevamo tratto. È un progetto che passa tra diversi generi e atmosfere e che cerca di tracciare un collegamento saldo tra questi grandi autori che attraversano un arco temporale lunghissimo ma che sono tutti uniti dall’essere riusciti a fare la differenza nella storia grazie all’utilizzo della propria voce. Nella scrittura abbiamo quindi privilegiato il come rappresentare piuttosto che il cosa, anche seguendo un approccio generale di composizione per cui in realtà scriviamo molto poco e ci affidiamo più che altro a note audio e registrazioni spontanee in studio. Il risultato è che ogni pezzo di Impre ha una genesi e una storia molto diversa: A Memoir [Gil Scott Heron] fu ad esempio tra le nostre primissime composizioni, e nasce quindi da un testo. La versione iniziale era molto diversa e prevedeva delle chitarre, ma dopo aver visto Mollo live e averlo coinvolto nel progetto ci siamo spostati su un lavoro che, partendo dagli aspetti fonoritmici del testo, ha pian piano costruito tutto l’ambiente sonoro. Per Baci Di Madre [Pastora Pavon Cruz] invece lavoravamo già da un po’ con Ninjoh e siamo partiti dal voler ricreare la struttura ritmico-metrica del flamenco, dal voler scrivere un brano in 12/8 e ricreare la cifra musicologica del genere. Da quella base sono partite diverse idee, alcuni versi sono stati scritti seguendo quella struttura ritmica e abbiamo prodotto tantissime versioni del beat prima di trovare quello definitivo, anche perché ci piace molto lavorare di sovrabbondanza per poi andare di sintesi. Un altro fattore interessante di Impre è come cambia molto a seconda dell’output. Nascendo come spettacolo performativo dal vivo, quando lo abbiamo portato in studio per renderlo un disco ci siamo trovati a compiere delle scelte anche radicali, alternando delle strutture o cambiando dei versi. Questa è una filosofia che ci portiamo dietro da Zoopalco, dove si lavora molto tenendo a mente il medium e ogni cosa è curata con una particolare attenzione alla forma che l'opera avrà alla fine: se sarà uno spettacolo, un disco, un concerto in radio.
Come vi trovate con gli Usine Baug, con cui state collaborando per Anse? Loro hanno un tipo di teatro che per quanto sia estetico si fonda spesso su un taglio quasi giornalistico in cui raccolgono testimonianze e racconti. Insomma, qualcosa di molto antitetico alla dimensione poetica.
Per entrambi il progetto si è configurata come un’occasione per uscire dalla propria zona di comfort. Sicuramente c’è una certa distanza tra il loro lavoro e il nostro, ma gli Usine sentivano questa esigenza di mettersi in gioco con qualcosa che non provenisse da loro o dalla loro ricerca drammaturgica. Il tutto nasce durante una nostra residenza al teatro Il Casale di Grizzana Morandi (BO), che è un luogo molto frequentato dagli Usine e attraverso il quale abbiamo potuto conoscerli personalmente e sviluppare una curiosità condivisa e una voglia di compenetrare il nostro mondo poetico e il loro, più narrativo e visivo. Sicuramente il progetto Mezzopalco non ha una dimensione documentale: ci documentiamo molto, ma non sfociamo mai in una ricerca di tipo storiografico sugli eventi e in questo senso Anse è davvero uno spettacolo che evoca molto ma in cui non succede niente, che scrive intorno e attraverso degli spazi senza che tuttavia ci sia mai davvero un casus belli, un fatto preciso. È stata davvero una sfida far combaciare le nostre visioni e sicuramente nel processo abbiamo modificato il nostro modo di vedere certe cose, anche grazie all’abilità con cui gli Usine a creare delle immagini estremamente chiare utilizzando pochissimi elementi. Un matrimonio estetico, più che di metodo.
Per quanto riguarda la regia di Anse, che formazione avete a riguardo e come siete arrivati a ragionare su una performatività che non è solo la messa in scena di elementi poetici ma anche la costruzione di una drammaturgia vera e propria?
Noi non abbiamo alcuna formazione di tipo registico. Con Impre abbiamo cercato di gestire la cosa nella maniera che ritenevamo più intelligente, prendendo appunti e imparando molto sul campo data dopo data. Con Anse la regia è invece totalmente nelle mani degli Usine Baug, che hanno lavorato con noi in un lungo periodo di residenza al teatro La Corte Ospitale di Rubiera (RE) partendo da un nostro poema orale e alcuni brani. Noi praticamente abbiamo presentato loro una drammaturgia sonora ma sono stati loro poi a dargli un’identità visiva attraverso la loro estetica austera ma dall’incredibile potenza evocativa. Durante il processo di stesura dello spettacolo è stato interessante notare come i due linguaggi abbiano iniziato pian piano a dialogare e influenzarsi tra di loro, con l’uso di una luce che chiamava il cambio di un verso, o un movimento in scena che suggeriva l’uso di un arrangiamento diverso.
Quanto è difficile vendere un progetto come il vostro e come lo presentate? Quali spazi desiderate e quali invece ricevete?
Con Impre era abbastanza agevole andare in giro perché alla fine era uno spettacolo molto semplice, che aveva bisogno solo di tre microfoni e un paio di subwoofer. Ciò ci ha permesso di portarlo davvero ovunque, dalle sagre di paese ai teatri stabili, semplicemente adottando dei piccoli dispositivi di scena per riuscire a coinvolgere nel caso un pubblico potenzialmente disattento. Una delle nostre cose preferite del tour di Impre era proprio questo dover cercare di leggere lo spazio e capire come usarlo, scegliere se approcciarsi al pubblico in maniera più colloquiale o richiamando di più l’attenzione, capire insomma in che modo gestire la performance al meglio. Era qualcosa di completamente autogestito insieme all’etichetta anche per quanto riguardava la parte di booking, e ci ha molto aiutato l’appoggio alla vasta rete di collettivi di poetry slam in giro per tutta Italia. Era davvero uno spettacolo liquido, fatto d’acqua. Naturalmente ci sono state delle volte in cui, nonostante avessimo mandato la scheda tecnica di ciò che ci serviva al locale, ci siam trovati giusto un mixer a due canali e un leggìo, perché a sentire di “poesia con musica” alcuni gestori si aspettavano che il nostro fosse un reading di poesia con accompagnamento musicale. E qui si è rivelato molto utile il lavoro di altri membri del collettivo, che iniziando a girare con produzioni sempre più complesse hanno pian piano fatto capire ai vari gestori l’esistenza di un movimento stratificato. Per quanto riguarda Anse, abbiamo partecipato e vinto un bando di produzione indetto da La Corte Ospitale e la distribuzione è totalmente in mano loro. È quindi una gestione da circuito teatrale, ha dei costi molto diversi e ci sono di mezzo tantissimi altri fattori. Se con Impre giravamo con uno zainetto con dentro un paio di microfoni e delle macchine fotografiche, adesso giriamo con un furgone e due macchine, e il soundcheck da fare in 10 minuti è stato sostituito da 8 ore di preparazione tra prove e montaggio della scenografia. È molto comodo, sicuramente ci permette di concentrarci di più sulla parte artistica del progetto e di non doverci anche sbracciare a gestire l’aspetto promozione e management. Dall’altro lato, al momento Anse è uno spettacolo molto difficile da adattare a spazi diversi dal teatro, anche solo per l’allestimento di questa grande scenografia che ruota insieme allo spettacolo. Poi magari in futuro potremmo lavorare a una sua versione più “tascabile”, chissà!
Quali sono i vostri riferimenti, tra musica letteratura, teatro e poesia?
Un disco che abbiamo ascoltato molto durante tutta la fase di creazione di Anse è stato “Heavy Heavy” degli Young Fathers. È qualcosa che ci ha unito creativamente, insieme al libro “Disertate” di Bifo Berardi, che affronta una serie di nodi che sono presenti nei nostri testi e ci ha aiutato a costruire un'utilissima piattaforma di confronto con gli Usine Baug per quanto riguarda diversi temi. È un libro molto prismatico che può cambiare veramente tanto a seconda di chi lo legge, e ci piace pensare che sia una natura che esiste anche nel nostro spettacolo. Sicuramente non possiamo non citare gli Usine Baug, che consigliamo a tutti di andare a vedere. Al momento sono in giro con due spettacoli: “Topi”, che parla del G8 di Genova e “Ilva Football Club”, che affronta la questione dell’Ilva. Per quanto riguarda la poesia, un autore che stiamo leggendo molto è il poeta francese Antoine Volodine, o potremmo citare Moor Mother, una delle più brave spoken word artist internazionali, che sicuramente ci illumina la strada. Dovessimo scegliere un disco in particolare, direi “Protect Your Light” del 2023, pubblicato con il suo side project Irreversibile Entanglements.
Per dar prova di queste esperienze non come rari casi isolati ma come qualcosa di radicato e in continua trasformazione, non potevo non parlare del Premio Alberto Dubito, bando annuale che si propone di valorizzare e stimolare la produzione artistica giovanile e scovare nuovi talenti nel campo della poesia con musica. Ho quindi scambiato due chiacchiere per email con il collettivo DISTURBAT! ALTR!, che ormai da anni organizza l’evento.
Come nasce il premio Dubito?
È un premio che nasce dalla voglia e dalla necessità di ricordare Alberto Dubito Feltrin (1991-2012), poeta, slammer, metà dei Disturbati dalla CUiete, gruppo sperimentale con cui ha inciso ben quattro dischi. Dubito è stato un innovatore e un raffinato interprete nel campo della poesia con musica; il premio in sua memoria si propone di finanziare quei progetti di giovani artistə che dimostrano un talento per queste discipline. Nel 2013, dopo la scomparsa di Dubito, Lello Voce e Marco Philopat, insieme alla famiglia Feltrin, hanno deciso di istituire un premio che potesse portare avanti la voce di Alberto e premiare dei percorsi artistici simili al suo. In dodici edizioni si è creata una grande famiglia, formata dallə partecipanti, sempre numerosə e “interconnessə”, un pubblico fedele e in espansione e una giuria che negli anni ha raccolto decine e decine di artistə di rilievo.
Ogni anno il 24 aprile, anniversario della scomparsa di Alberto, si apre il bando della nuova edizione con una grande festa al centro sociale Django di Treviso, nato anche grazie alla spinta propulsiva di Alberto, che è stato un attivista instancabile. La scadenza è a inizio settembre, e i mesi estivi sono dedicati alla diffusione del bando con qualche evento promozionale. Una volta ricevute le candidature (un centinaio ogni anno), la “giuria ristretta” di Disturbat! Altr! seleziona una rosa di dieci progetti semifinalisti e li consegna alla “giuria allargata”, composta da diversə esponenti del mondo della musica, della poesia e non solo. Tra ottobre e novembre questa giuria individua lə quattro finalistə che si sfideranno a dicembre al Cox18, durante il festival Slam X che anima per due notti lo storico centro sociale milanese.
Oltre agli appuntamenti di Treviso e Milano, da qualche anno prima della finale ci incontriamo a Bologna dal collettivo Zoopalco per il festival NOPALCO, e stiamo iniziando a immaginare qualche data estiva anche in Campania.
Cosa costituisce secondo voi il cuore della poesia con musica, le sue componenti fondamentali? Vi sono mai capitati bei progetti che non avete selezionato perché magari li sentivate fuori contesto?
Il nome del Premio ha in sé una dichiarazione d’intenti: poesia con musica, non su, non per musica. Poesia e musica a braccetto, compagne e non d’accompagnamento, complici e non a servizio. “Poesia con musica” in assenza di una parola che le dica entrambe. Ci siamo confrontatə a lungo sull’etichetta da usare per un genere — la spoken music — che travalica i generi, distinguendosi spesso per un uso della voce non tradizionalmente melodico e intonato, ma prosodicamente vicino al parlato, allo stile formulare, al flow del rap, alla cantilena di un’invocazione. Questa qualità di pronuncia nel tempo si è legata a diversi generi propriamente musicali, dalla dub alle sue evoluzioni nel rap e oggi nella trap, dal punk al jazz fino all’elettronica più o meno sperimentale.
Nelle sue forme orali e sonore, la poesia è già musica. Per questo è difficile tracciare una linea netta tra ciò che è “poesia con musica” e ciò che non lo è: nel bando del Premio scriviamo “Non verranno prese in considerazione tracce senza musica” per escludere le candidature in cui si declama semplicemente un testo ad alta voce (spoken word, slam poetry), ma la spoken music può comporsi anche di sola voce, se quella voce poetica si fa musica (si veda Impre, l’album del 2022 di Mezzopalco) o se quella voce musicale si fa poesia (si veda la produzione di poesia sonora, anche non testuale, di Giovanni Fontana, vincitore del Premio Dubito alla carriera nel 2020).
Tutto ciò che afferisce troppo nettamente a un genere, anche se bello, ci sta stretto: è capitato che rimanessero fuori dalla finale alcuni progetti troppo classicamente rap o cantautorali, per esempio. Cerchiamo di premiare ricerche inedite e originali che accostino il verso al suono in modo imprevedibile, pur non avendo stabilito a monte dei criteri oggettivi di valutazione, dal momento che la giuria è piuttosto eterogenea e accoglie poetə, musicistə, rapper, scrittorə, critichə, giornalistə, autorə teatrali.
Tra le linee guida che come collettivo diamo alla giuria c’è quella di non giudicare la qualità della registrazione, che può essere anche piuttosto “casalinga”: il premio in denaro può servire proprio a portare il lavoro in studio di registrazione. Allo stesso modo, se un progetto è già maturo, “finito” e supportato da agenzie o etichette forse non ha bisogno della vittoria del Premio Dubito, che vuole essere innanzitutto un trampolino, in termini di visibilità e risorse, per progetti esordienti.
Nel nuovo scenario della musica indipendente si va sempre più affermando una tendenza al declamato (penso ad alcuni gruppi del post-punk inglese) o a storytelling che a volte superano la dimensione prettamente musicale (come nella bedroom music). Eppure la scena di poesia con musica rimane una nicchia a volte sconosciuta al pubblico e anche alla critica musicale. Cosa blocca secondo voi la disciplina dall’amalgamarsi al meglio nel mondo musicale?
È una questione di posizionamento: moltə artistə che usano il parlato si situano fin dall’inizio della propria carriera in un contesto musicale e dunque potenzialmente in un mercato esistente. La gran parte delle sperimentazioni che abbiamo incontrato in questi anni fiorisce invece in contesti genuinamente underground, periferici e indipendenti, che non possono contare sul pubblico della musica mainstream né sui fondi pubblici dello spettacolo dal vivo. In questo sottobosco c’è molto fermento e molta contaminazione tra sperimentatorə vocali, compositorə, scenografə, artistə audiovisivə o digitali, coreografə e così via. Da un punto di vista mediale, queste opere eccedono spesso la dimensione della traccia fruibile come singolo sulle piattaforme streaming o la forma del concerto live per andare nella direzione dell’audiodramma, della videoarte, dell’installazione sonora, dell’improvvisazione.
Il mondo musicale può accogliere alcune di queste ricerche (il progetto vincitore del Premio Dubito 2021, Osso Sacro, nel 2023 ha vinto il Premio Andrea Parodi, un riconoscimento internazionale per la world music; Kyoto, vincitrice nel 2022, ha all’attivo più di cento date in festival di rilievo tra cui Eurosonic, Ypsigrock, Jazz:Re:Found, Medimex; il vincitore del 2023, Matteo Gorelli aka Mamma, è attualmente in tour con il sostegno di Rockit), altre le può assorbire il teatro (Astolfo 13, progetto vincitore dell’edizione 2019, ha debuttato nel calendario ufficiale del Teatro Biondo di Palermo), altre l’arte contemporanea (Caterina Dufì, vincitrice dell’ultima edizione con il progetto Vipera, e Gabriele Stera, vincitore delle edizioni 2013 e 2016, hanno preso parte a Residenza Poietica presso la Fondazione Merz di Torino). Si tratta sempre, in ogni caso, di opere ibride che possono strategicamente incanalarsi in una dimensione (e dunque in una forma di sostenibilità) di volta in volta legata alle arti sceniche, sonore o visive, che però non le esaurisce.
Quanto è importante per la giuria del Dubito la componente di sperimentazione musicale? La scelta di sonorità inusuali o una certa originalità sonora possono a volte in fase di giudizio far passare in secondo piano la componente strettamente poetica?
Al centro dell’interesse della giuria è la sinergia, il dialogo che si crea tra la componente poetica e quella musicale, che dovrebbero in un certo senso risultare inscindibili. Chi si occupa di poesia lirica in Italia e compone versi destinati alla stampa e alla lettura silenziosa spesso rimprovera alla poesia orale (che si tratti di slam poetry, di spoken word, di spoken music o di poesia sonora) di non “reggersi” su carta, di crollare su se stessa e di non risultare convincente quando viene spogliata dei suoi elementi non testuali: la presenza fisica dellə performer sul palco e del pubblico in ascolto, l’uso più o meno sapiente dello strumento-voce, l’amplificazione, l’eventuale presenza di musica. Ma il punto è proprio questa medium-specificità: nella maggior parte dei casi, la poesia orale viene composta attraverso lo strumento-voce, dentro una logica ritmica e sonora, non vi approda in un secondo momento. Spogliarla di questi elementi significherebbe privarla non di un vestito, di una confezione, ma di qualcosa di connaturato.
Non mancano, ovviamente, le eccezioni alla regola: l’ultima edizione del Premio ha portato sul palco del Cox18 delle forme molto diverse di dialogo tra scritture poetiche e sonore. Tra i progetti finalisti, quello di LENORE (Valeria Rocco, Giovanni Fusco, Alessandro Pascolo) nasce a partire dai testi della raccolta “Per non aver commesso il fatto” di Valeria Rocco, pubblicata in forma cartacea nel maggio 2024 da Zacinto Edizioni e successivamente “trasposta” in un album musicale con sonorità punk rock.
Oppure i testi del progetto trap/uk dubstep/noise DRIP FORTUNA (Cecilia Gallucci aka Ciolle, Calogero Bufalino aka Bufa, Valeria Miracapillo aka Mildred), nonostante Ciolle si auto-situi come autrice nel contesto della slam poetry, attingono a piene mani dal plurilinguismo e dall’andamento quinario della trap.
Il collettivo ORA ha presentato un progetto elettropop, “Hack the bank”, i cui testi sono costituiti in gran parte da stringhe di codice:
La vincitrice, Caterina Dufì aka Vipera, ha presentato un progetto solista: il dialogo tra scrittura e live electronics che si compie intorno alla stessa artista, il racconto di un paesaggio su cui incombe la minaccia del crollo, con sonorità di sismi e di sirene.
Quali progetti consigliereste di ascoltare a chi si avvicina per la prima volta al mondo della poesia con musica?
Nel corso di questi dodici anni abbiamo incontrato progetti provenienti da galassie lontanissime. Immaginando di farne una playlist, vi proponiamo alcuni di quelli fruibili online:
La FrustrAzione del Lunedì e altre storie delle Periferie Arrugginite (Disturbati dalla CUiete, 2012)
Buona colazione (EELL SHOUS - Premio Dubito 2014)
Azzurro Nove (Voltus - Premio Dubito 2015)
Piano per la fine della luce (Gabriele Stera, Franziska Baur, Jeremy Zaouati, Giacomo Troncon - Premio Dubito 2016)
Il fiore inverso (Lello Voce - ideatore del Premio Dubito, 2016)
Diossido Di Cromo (Matteo Di Genova, Marco Crivelli - Premio Dubito 2017)
IMPRE (Mezzopalco - Premio Dubito 2018)
C4MG1RL (Monosportiva - Premio Dubito 2020)
Urla dal Confine (Osso Sacro - Premio Dubito 2021)
Debito (MORA - finale 2021)
EP 2021 (San Giorgio Cibernetico - finale 2021)
LIMES LIMEN (Kyoto - Premio Dubito 2022)
Istinto della luce (Mamma - Premio Dubito 2023)
Trafitto - live session (Vipera - Premio Dubito 2024)
Disturbat! Altr! (Disturbat! Altr!, 2024)
Si potrebbe creare una playlist anche con le opere di spoken music della giuria, che conta - tra gli altri - i nomi di Jonida Prifti (Acchiappashpirt), Napo (Uochi Toki), Carma (Studio Murena), Giovanni Succi (Bachi da pietra), Sara Ventroni, Giovanna Marmo, Rosaria Lo Russo, Julian Zhara, Marko Miladinovic, Ophelia Borghesan, Kento, Pierpaolo Capovilla (Il Teatro degli Orrori).
Non c’è miglior modo di concludere che puntando un occhio al futuro. Originaria del Salento, Caterina Dufì (in arte Vipera) è stata la vincitrice dell’edizione del 2024 del Premio Dubito grazie anche a una proposta musicale originalissima, legata a un certo tipo di cantautorato sperimentale in cui la sua poetica si innesta attraverso una ricerca continua sul ritmo e sul suono delle parole.
Come ti sei ritrovata nel mondo della poesia performativa? È sempre stato un perno nella tua ricerca musicale o è nato dopo?
Non saprei davvero come collocare nel tempo le due cose. Sicuramente ho iniziato studiando pianoforte, prendendo lezioni di canto, imparando la chitarra elettrica da autodidatta e facendo concerti. Non ho mai percepito una grande distinzione tra la fase in cui scrivo i testi e la fase in cui penso alla musica, tanto che in questo momento, lavorando a delle trasposizioni scritte di alcuni miei testi, trovo difficoltà a restituire nello scritto una forma autonoma. Le istanze ritmiche precedono sempre quelle grafiche, e quelle grafiche tendo più a utilizzarle come dispositivo di memoria che come mezzo di espressione. La mia prerogativa rimane il creare qualcosa in cui testo e musica diventano parte di uno stesso inviluppo, di uno stesso suono, di uno stesso oggetto.
Nel tuo ultimo album “Acerbo E Divorato” (Dischi Sotterranei, 2023) c’è una certa drammaturgia dell’attesa, un peso tra frasi e pause, unite nel vuoto da una musica sempre molto evocativa. Nella scrittura dei tuoi pezzi arriva prima il testo o parti prima da un’idea musicale?
Non so trovare un punto di partenza ma la prima cosa che mi viene in mente è questo piccolo saggio di Amelia Rosselli chiamato “Spazi Metrici”, dove lei – da compositrice e poeta – riflette su questa ibridazione. Quel saggio mi ha aiutato molto a capire dove volevo andare all’inizio, ma poi naturalmente ci si adatta a quello che stai scrivendo. “Acerbo e divorato” è per esempio un disco di canzoni che durano tutte sui 3-4 minuti e risente del linguaggio proprio della canzone, nonostante io abbia cercato di rifarmi anche formati diversi. Il modo in cui metto in fila le parole varia a seconda dell’ecosistema sonoro che gradualmente va creandosi. C’è una masticazione interiore, un canticchiare che nel corso del tempo cambia il modo in cui le parole si dispongono su una griglia metrica. Il ritmo forse è la cosa che mi guida di più, ancor prima della componente armonica, un qualcosa di immaginario che parte dalla testa e si modella soprattutto nelle parole, nelle primissime fasi di stesura.
Vorrei ci parlassi un po’ del tuo esordio, “Tentativo di Volo” (Dischi Sotterranei, 2021) . Nasce prima come opera visiva o hai assemblato le immagini su pezzi che già avevi?
Sono nate prima le canzoni, mentre la parte visuale è nata grazie alla collaborazione con un mio amico e artista visivo, Federico Rizzo. Eravamo partiti con l’idea di creare dei video per ogni brano dell’EP ma ci siamo fatti prendere la mano e abbiamo finito per scrivere una storia, che è poi diventata un cortometraggio. È stato per noi un territorio dove mettere all’opera tutto ciò che sapevamo fare, costruendo varie cose e scrivendo questi personaggi ispirati a ciò che ci appassionava in quel periodo, come “Il colore del melograno” di Sergej Iosifovič Paradžanov o l’uso del reverse ripreso da alcuni film di Lynch. Federico ha costruito a tal proposito la macchina del volo che compare nel nostro video, l’ha progettata con l’aiuto di un ingegnere, dato che serviva qualcuno in grado di calcolare esattamente il bilanciamento dei pesi. Fu una cosa assolutamente folle, e ci ripenso spesso come ad uno dei periodi più belli della mia vita, dove in teoria eravamo ancora sotto quarantena da Covid-19 ma avevamo l’autorizzazione di uscire per fare i sopralluoghi e le riprese.
Da dove viene invece la scelta, sempre in “Tentativo di Volo”, di alternare l’inglese e l’italiano? Che è anche una dimensione totalmente assente in “Acerbo e Divorato”.
È un tipo di ibridazione che trovo generativa e penso che in Italia sia poco praticata. Per me è funzionale ad aprire tanti mondi diversi e possibili all’interno della forma canzone ma gioca anche un ruolo nel discorso narrativo, con un testo che un po’ è immediatamente intellegibile e un po’ crea invece un riverbero tra quello che viene ascoltato e il significato di quello che si è sentito. Non ho una ragione precisa per cui questa dimensione manchi in “Acerbo e divorato”. Forse avevo un po’ il pallino dello scrivere in italiano, perché mi sembrava una sfida e trovavo più difficile scrivere delle linee melodiche belle in italiano piuttosto che in inglese. Un’artista che mi piace molto, Jenny Hval, racconta in un’intervista proprio del fatto che scrivere in inglese piuttosto che nella sua lingua madre (ha origini norvegesi) la faceva sentire più libera, proprio perché cantava in una lingua che non era la sua. Il discorso forse è un po’ diverso per l’italiano che ha molti più parlanti e una tradizione cantautorale più profonda, ma è sicuramente un aspetto che tengo in considerazione nella ricerca di forme nuove.
Tra gli artisti che abbiamo intervistato per questo articolo, sei sicuramente quella che più vive la propria musica anche come esperienza puramente concertistica. Scrivi i tuoi pezzi avendo in mente il palco o lo studio? Come vivi l’aspetto performativo della tua musica?
Nell’ultimo periodo ho iniziato a rendermi conto dell’importanza di pensare già in fase di scrittura a come i pezzi si presenteranno live. È qualcosa con cui sto facendo i conti solo adesso, mentre prima magari gli arrangiamenti più sottili nascevano in fase di registrazione e non durante le prove in band. Tendo a distinguere molto cosa succede in scena quando suono con una band o quando suono da sola, se si crea una dimensione concertistica o invece una dimensione più performativa, dove entra in gioco anche quel tipo di dimensione teatrale che cerca una coincidenza tra suono e corpo in scena. E attualmente ti posso dire che quest’ultima è quella che mi piace di più, per quanto mi piaccia troppo suonare in band per pensare di smettere completamente. Non a caso sto lavorando a questo progetto a metà tra musica e performance chiamato ETEREA NOISE con Eugenia Delbue, un'amica attrice con cui ho già fatto delle date dal vivo, e stiamo anche lavorando a dei brani che pubblicheremo per ZPL – Zoopalco Poetry Label.
Cosa citeresti come influenze sul tuo modo di scrivere e di comporre? In redazione tutti abbiamo apprezzato la citazione ai Can ne “L’allodola” e io personalmente ti trovo molto vicina come atmosfere ai Current 93.
Non conosco i Current 93! Sicuramente il mio gruppo preferito di sempre sono i Distanti, band post-hardcore/emocore che si è sciolta qualche anno fa. Li ascolto da quando ho 16 anni e gli sarò per sempre affezionata. Credo inoltre che in “Acerbo e. divorato” si senta molto l’influenza sia dei Can che del Franco Battiato di “Gommalacca”. Infine, un cantautore che mi piace molto è Flavio Giurato.
Che progetti hai per il futuro? La vittoria al Dubito ha aperto nuove porte ed orizzonti o l’hai vissuto come uno scalino in un progetto già di per sé chiaro?
La vittoria al premio Dubito mi ha fatto capire che se si fanno le cose senza compromessi si può ottenere un risultato di bellezza inattesa. Non mi aspettavo onestamente la vittoria, anche perché ho portato dal vivo qualcosa che non rispecchia al 100% l’immaginario costruito dal premio negli anni. Il mio lavoro è focalizzato sugli aspetti formali ed estetici della poesia, che raramente trovano terra. Ma mi sono resa conto che effettivamente c’era attenzione viscosa verso quello che facevo, e questa consapevolezza mi ha sicuramente aperto nuove possibilità. Adesso sto scrivendo dei pezzi nuovi con estrema calma e sto lavorando ad ETEREA NOISE, con cui abbiamo delle date in teatro. Ultimamente mi sto aprendo al mondo della musica elettronica ed elettroacustica, e non escludo che possano diventare parte del mio suono in futuro.
E "futuro” alla fine è la parola perfetta con cui interrompere questo articolo, che rimane un semplice spioncino verso un universo molto più grande. La spoken music italiana è tutt’altro che assente, vive e fagocita le tendenze del contemporaneo e le mastica a denti stretti. Brandelli di arte impazzita che diventano una cosa sola, musica che scavalca i contesti, concerti piegati alla performance, poesia che vola via dalla carta e si insinua ovunque trovi un terreno fertile per prosperare. Tante cose, tutto insieme, tutte diverse. Eppure, tutto risuona.
Articolo a cura di Vincenzo “Notta” Riccardi con la collaborazione della redazione.
La musica è qualcosa che accade adesso, intorno a noi, in modi a cui spesso neanche poniamo tanta attenzione. I suoi linguaggi si ibridano così velocemente che a volte fatichiamo a definire dove finisca la musica e cominci altro. Speriamo che questo articolo vi abbia lasciato più dubbi che certezze. Grazie di cuore per chi è arrivato fino alla fine di questo approfondimento, come al solito vi ricordo che Ubu Dance Party è anche un canale YouTube e se volete ci trovate anche in radio con PRESS PLAY. Grazie ancora per il supporto e il passaparola.