«Pensavo ad una battuta di un tipo, un attore che conoscevo, che diceva sempre che avere un locale a Trastevere negli anni ‘70 era un po’ come avere un'automobile . Era quasi come se fosse obbligatorio per un artista arrivare ai vent’anni e prenderne uno».
Così mi accoglie Mino Di Martino nella sua casa romana, senza neanche dare il tempo di sedermi, senza che abbia avuto modo di fargli una domanda e dare inizio a questa intervista che programmavo da mesi. Mi colpisce da subito con la sua voce roca, che ben si adatta ai suoi lunghi capelli e alla folta barba bianca. Ma più di tutto mi colpisce il suo entusiasmo che quasi sembra suggerire un’urgenza, la fretta di raccontare una storia che urgente non si direbbe, sepolta così in fondo nel tempo da essere stata praticamente quasi dimenticata, in certi frangenti anche da lui stesso. Mino sta per raccontarmi di quel minuscolo pezzo di Roma che fu l’Albergo Intergalattico Spaziale, uno spazio dell’underground artistico e musicale gestito da lui e dalla moglie Terra, praticamente relegato a trafiletti, citazioni confuse o al peggio vera e propria disinformazione. Ma cerchiamo di capire effettivamente di cosa stiamo parlando.
Una musica post-atomica
Chi naviga il mondo del progressive italiano o le nicchie della musica sperimentale, avrà sicuramente sentito nominare il progetto Albergo Intergalattico Spaziale. Formati durante la metà degli anni ‘70 da Mino Di Martino (al termine della sua esperienza beat con I Giganti) e la sua compagna Terra Di Benedetto, il loro omonimo esordio del 1978 è una vera e propria lettera d’amore alle «parti strumentali dei Pink Floyd» (come le chiama Mino), quella musica cosmica che negli stessi anni vedeva la Germania sperimentare coi primi sintetizzatori grazie ad artisti come Popol Vuh, Tangerine Dream, Ash Ra Tempel e Klaus Schulze. Originale fin dalla iconica copertina che rappresenta uno scatto della prima manifestazione francese contro il nucleare a Creys-Malville, il disco è infatti anche riconosciuto per il suo schieramento antinucleare in un'Italia che usciva dalla crisi energetica e che vedeva nell’incremento dell’energia nucleare una soluzione semplice, osteggiata ferocemente dai piccoli gruppi della sinistra radicale. Forse fin troppo trascinato da queste suggestioni, è per me impossibile non percepire la desolazione vagamente post-atomica delle improvvisazioni libere che compongono l’album, il clima sparso e sospeso dei sintetizzatori che viaggiano come smarriti, con la voce di Terra Di Benedetto che si impone per indicare una via.
Nelle parole di Terra, la musica dell’Albergo è figlia di «un approccio mentale e animico con l’improvvisazione, dove tutto parte magari da un vocalizzo, una onomatopea e qualche accordo che piano piano trovano la loro strada in musica. Partivamo spesso da una poesia, e poi si entrava nella musicalità e vocalità stessa del verso. E tra percorsi recitativi, melodie antiche e popolari, accordi di chitarra e tastiera, in una sorta di comunione animica Mino ed io ci incontravamo in questa atmosfera creata da noi stessi. A volte, in un punto cruciale del percorso la destrutturazione dei linguaggi musicale e vocale in puro suono rendeva più intenso il substrato emotivo. Ma quasi sempre musica e canto nascevano contemporaneamente. Da questo processo a volte si formano delle canzoni, altre volte invece si restava come sospesi nella percezione di un'intuizione, e si continuava a improvvisare». Tutto questo, per esistere, ha bisogno di uno spazio in cui comporre senza freno, un luogo dove dare e nutrirsi di stimoli creativi, uno studio in cui riunirsi e scambiarsi idee. E, nel caso dell’Albergo, questo posto era a Trastevere, a pochi passi da Piazza Trilussa, in Via Garibaldi 56.
Locale Intergalattico Spaziale
La Trastevere degli anni ‘70 era un luogo quasi magico. Potremmo paragonarla a come oggi ci immaginiamo SoHo a New York, una sorta di grande paese concettualmente separato dal resto di Roma, colmo di artisti, cineasti, artigiani che aprivano ogni giorno nuove videoteche, ristoranti, teatri, enoteche. Una testimonianza simbolo in cui mi sono imbattuto cercando di ricostruirla è quella di Paola Pitagora, attrice che negli anni ‘60 ha recitato in grandi film come I Pugni In Tasca di Marco Bellocchio o Senza Sapere Niente Di Lei di Luigi Comencini. Mi scrive per email:
«Odd times. Nei primi '70, avevo aperto una sartoria - con annesso laboratorio - in via Garibaldi, nel palazzo dove viveva Sergio Leone. La sartoria era un ampio locale che un artigiano del cinema aveva dipinto con una foresta, e installato un albero di cartapesta, la chiamai Muschio e Miele. Era anche un ritrovo di amici, alcuni portavano stoffe dipinte a mano. Sette anni divertenti, il ricavo per pagare gli stipendi veniva dai matrimoni. Di fronte avevo un ristorante macrobiotico chiamato Soya e Gioia e un locale chiamato Folk Rosso [dove facevano musica e teatro, ndr]. Venivano spesso i ladri a buttarmi per aria casa, nel '78 si camminava sulle siringhe, e lasciai Trastevere, che oggi è solo una sequela di ristoranti.»
Questo racconto tuttavia non è qui solo per fornire una parentesi nostalgica. Il Folk Rosso cambiò infatti gestione circa nella primavera del 1974 e divenne, sotto le mani di Mino e Terra, l’Albergo Intergalattico Spaziale. Originariamente un laboratorio privato per improvvisare e comporre i loro pezzi (nacquero al locale canzoni come Esodo, Luna di marzo, C’è uno strano fiore), così come un spazio che saltuariamente apriva le proprie porte al pubblico per organizzare mostre ed eventi, il locale era uno spazio esiguo di 100 mq, reso ancora più angusto dalla sua forma ad L che congiungeva l’anticamera in una sala leggermente più grande, di circa 60 mq. Inizialmente lo spazio doveva essere arredato da un allora giovanissimo Luigi Serafini, designer ed illustratore oggi famoso per lo più per il suo misterioso libro di illustrazioni Codex Seraphinianus. Raggiunto per email, Serafini mi ha illustrato come vedesse nello spazio «un luogo di incontro per giovani» e avesse l’idea di arredarlo «appendendo oggetti di uso quotidiano al soffitto, come nelle immagini senza gravità provenienti dalle navicelle spaziali». Aveva inoltre l’idea di rendere tutto il locale di un acceso bianco «forse sotto la suggestione di 2001: Odissea Nello Spazio, ma non ricordo con precisione».
Del progetto di Serafini resterà solo l’idea di queste pareti bianche (anche se Terra dichiara di averle pensate ed imbiancate di persona con Mino), con il designer impegnato nello stesso periodo a Milano a cercare un editore per il Codex e Mino che nell’attesa arredò il locale con Terra e con l’aiuto di «un amico che tornava da un viaggio in India e che restò a Roma a darmi una mano». Alla fine, il locale conservò un aspetto più semplice ma comunque peculiare: Terra ricorda uno spazio vuoto e radiante, affascinante nel suo bianco totale. Dietro una vetrata a porta, spiccava nell’anticamera un piccolo tavolo d’epoca e un grande samovar, con a disposizione diverse scatole di tè cinese ed indiano. Seguendo il soffitto ad archi, si arrivava ad una seconda sala con una pedana, un proiettore, un impianto e due Farfisa forniti da una società, oltre alle due chitarre, elettrica e acustica, di proprietà di Mino e qualche sedia pieghevole, anch'esse bianche. A spiccare su uno degli archi la grande insegna al neon ALBERGO INTERGALATTICO SPAZIALE che Mino amava nel suo «dare all’interno quella luce azzurrina, molto spaziale» e Terra nel suo «bianco riflettente azzurroviolaverde».
Quell’effetto di luce possiamo purtroppo solo immaginarlo. Nella mia ricerca non sono riuscito a trovare nessuna foto del locale, nonostante abbia cercato disperatamente in archivi pubblici o privati, libri sull’architettura di Trastevere del ‘900 o nei cassetti di chiunque sia riuscito a rintracciare per scambiare due chiacchiere sul locale. Nonostante i miei sforzi, all’Albergo Intergalattico Spaziale piace mantenere un alone di mistero.
Stelle, pianeti, illusioni e maschere
Naturalmente il primo a cui chiedo delle foto del locale è Mino, che sa solo dirmi che «all’epoca non era come adesso che prendevi il cellulare ed era fatta. Scattavi una foto, la sviluppavi e poi magari te la dimenticavi da qualche parte». Ricorda solo un’occasione in cui sono state fatte delle foto al locale, ed è quella volta che si mise in posa per farsi immortalare con indosso una maschera a gas. Quelle foto, se ritrovate, testimonierebbero il primissimo evento tenuto al locale: un improvvisazione per organo e voce in cui Mino e Terra tentano di comunicare, anche attraverso uno spettacolo visionario di luci verdi e azzurre, quel pericolo nucleare imminente che diverrà il protagonista del loro primo disco. Presagito da giornate in cui Mino vagò per Trastevere in tuta antigas ad affiggere manifesti, la performance è arricchita da un bidet di duchampiana memoria che troneggia nel bianco del locale, dove una scritta in inchiostro nero recita «milioni d'anni di evoluzione… per arrivare fino ad oggi… un attimo per distruggere tutto».
Questo primissimo evento testimonia come, oltre alla musica, sicuramente uno degli obiettivi del locale era mischiarsi col mondo dell’arte contemporanea. Quando Terra tornò da Parigi con un libro su Escher regalatole da una collega attrice, i mondi e le geometrie impossibili dell’incisore olandese la folgorarono così tanto che decisero di dedicargli una mostra al locale. Trasformate in diapositive e proiettate, le sue opere fungevano da base visiva ancora una volta per le loro improvvisazioni, in una formula da lì brevettata che più tardi aprirà idee per numerosi altri concerti ispirati al mondo dell’optical art, un movimento artistico molto in voga al tempo che esplorava i confini della percezione umana attraverso la creazione di illusioni bidimensionali.
Oltre al mondo delle arti figurative, c’era anche un certo interesse per il mondo della videoarte, testimoniato da sporadici cineforum. Mino mi racconta ad esempio di quando proiettarono al locale Verifica Incerta di Alberto Grifi: «un lavoro che si era fatto conoscere nell’underground, e per me strepitoso. Era praticamente un mediometraggio fatto incollando col nastro adesivo metri e metri di spezzoni di pellicola di film americani degli anni '50-'60. Vedevi cose tipo Gary Cooper che apriva una porta e ne usciva fuori Stewart Granger, gli indiani che andavano dietro una collina e quando sbucano fuori erano ormai passati 100 anni e tanti altri esperimenti di questo tipo. Il suo giocare con i ritagli con umorismo era incredibile, e credo sia stato d'ispirazione per molti musicisti che come me stavano pensando di iniziare a lavorare con le immagini».
Gli eventi all’Albergo erano insomma un crogiolo di cose, a cui si mischiavano anche corsi di yoga e di Tai-Chi tenuti in sede da esterni, a condividere col quartiere il loro interesse per la meditazione. Non è un caso se alla mia domanda su che tipo di pubblico frequentasse le serate, il ricordo di Mino va ad un tipo che veniva spesso, di cui non richiama alla memoria il nome e neanche bene cosa facesse: «ricordo solo che una volta arrivò con un sassofono e mi chiese se poteva lasciarlo da noi per un po’. Era questo un po’ lo spirito con cui la gente veniva dopotutto, sapeva di accedere ad uno spazio di artisti e non si faceva problemi a chiedere una cosa del genere». Per ultimo, mi sono permesso di lasciare il mio evento preferito, quello per cui avrei tanto voluto assistere e per cui farei volentieri un viaggio indietro nel tempo, anche solo per come lo racconta Terra.
«Andai a Monte Mario, all’osservatorio astronomico. Quel giorno c’era un giovane con la barba lunga che mi accolse con molta cortesia. Purtroppo, per quanto mi sforzi, non ricordo il suo nome. Io gli spiegai che avevo un locale e volevo fare questi concerti parlando dell’evoluzione della Terra e del sistema solare. Lui mi racconta che studiava il sole, e mi mostra tutta una serie di suoi lavori a riguardo. Incantata dalle sue ricerche, gli chiedo quindi se gli andasse qualche volta di venire al locale, ed esporre i suoi studi mentre noi improvvisavamo in sottofondo. Lui accettò. Facemmo quindi due concerti: una riguardava l’evoluzione del pianeta Terra, dove tra immagini e diapositive lui ogni tanto parlava dei dinosauri o della formazione dei vulcani. Il secondo invece era più basato sul fenomeno delle macchie e dei venti solari, precisamente i fenomeni che gli scienziati dell’osservatorio stavano studiando in quel periodo. Fu una bellissima esperienza.»
Una musica improvvisata, una situazione improvvisata, con gente conosciuta durante il percorso per un risultato più che ambizioso. È proprio in questo evento che vedo il cuore di tutto quello che Mino e Terra stavano facendo.
Ingenua, splendida creatività
Tutto questo già basterebbe a sbugiardare molte delle fonti che ho trovato che identificano lo spazio come un “locale di musica dal vivo”, come fosse stata un’arena gestita da musicisti che ospitasse altri musicisti. I concerti in quanto tali al locale erano in realtà pochi e sporadici, più che altro occasioni per improvvisare insieme ad alcuni amici. Sicuramente ci suonò Franco Battiato, storico amico e collaboratore del duo con cui nel 1975 formerà (insieme a Juri Camisasca, Roberto Mazza, Lino Capra Vaccina e Vincenzo Zitello) il supergruppo psichedelico Telaio Magnetico. La genesi del disco del Telaio è forse il punto più divertente della mia intervista con Mino, e non posso non citarvela:
«Data la mia esperienza in major coi Giganti, riuscì ad avere un contratto di 5 milioni di lire con la EMI sulla fiducia, senza neanche che ci venissero chiesti dei provini. Gli portiamo un master dopo un anno e mezzo… ma loro si aspettavano un disco rock di canzoni, non una roba sperimentale! Mi ricordo il rappresentante della EMI sconvolto che esclama: “Che cazzo, non c’è neanche il basso e la batteria!” Chiama quelli del reparto marketing, gli fa sentire il lavoro e anche loro sono sconvolti, non sanno neanche come distribuirla quella roba. Lì ho capito di aver fatto una cazzata, che nonostante la mia esperienza non ci avevo neanche pensato a cosa si aspettassero loro. Comunque ci andò bene: ci sciolsero il contratto e ci regalarono il master. Siamo quindi scesi a Napoli dove c’erano un sacco di piccole etichette di musica neomelodica e fabbriche che stampavano dischi a bassissimi prezzi. Abbiamo stampato 500 copie del disco e le abbiamo quindi distribuite nelle librerie alternative».
Questa storia è inoltre per me la ciliegina sulla torta che contraddistingue in senso lato tutte le scelte del locale: le persone dietro l’Albergo Intergalattico Spaziale nascono underground e muoiono underground «ironici, drammatici e lisergici» secondo Terra, e sono capaci di esprimere sé stessi solo attraverso uno sperimentalismo tanto efficace quanto giocoso e divertito, al punto da diventare quasi splendidamente ingenuo. Lo stesso concerto di Franco Battiato, già famoso nell’underground e prestatosi gratuitamente per dare una spinta iniziale al locale dei suoi amici, di fatto attira poche persone perché (ricorda Terra):
«Avevamo fatto per la serata questa bellissima locandina promozionale antinucleare usando le nostre foto in maschera antigas che avevamo sparso per Trastevere e dintorni ma… ci eravamo scordati di scrivere della presenza di Franco! Lui stesso disse di non aver visto nessun manifesto della serata, di pensare a come avremmo riempito il locale altrimenti!»
Altro grande amico che si esibì al locale fu il cantautore Claudio Rocchi. Al ricordo di Claudio (scomparso nel 2013), la prima cosa che viene in mente a Mino è «quella volta in cui, durante un concerto con lui, stavo suonando la chitarra elettrica davanti a questo pubblico di 100.000 persone. A un certo punto non so cosa mi è preso, ma le vibrazioni del pubblico mi stavano come implorando di diventare il nuovo Jimi Hendrix e ho iniziato a tirare fuori suoni a caso dalla chitarra, usandola come fosse un synth. Sono praticamente passato da suonare seduto su una sedia a stare in equilibrio su di essa, quasi invasato, a sperimentare senza freno sulle ballate di Claudio. Lui ci rimase un po’ così, il pubblico invece la prese bene».
La cosa particolare è che Claudio Rocchi chiese a un certo punto ai due di diventare socio del locale, ma la sua richiesta fu negata. Mino dice che «nonostante lo reputassi la persona giusta, organizzata e che aveva una certa esperienza, credo anche che quando parti con un tuo progetto vuoi fare le cose senza l’aiuto degli altri, hai questa forma di orgoglio di cui ti accorgi solo dopo quanto fosse ridicola». Entrambi questi concerti non avevano un biglietto da pagare all’ingresso, né tantomeno le mostre o i cineforum. Lo spazio in fin dei conti restava più uno studio personale che una fonte di reddito, ma da un lato conviveva anche la speranza, come dice Mino, che «se fosse andato in porto l’operazione con la EMI ad esempio, avremmo sicuramente usato l’occasione per promuovere di più il locale e far arrivare più gente, farlo diventare un locale vero e proprio».
Ma tenere tutto insieme alle proprie condizioni era difficile, i soldi venivano praticamente solo dalla musica e lo spazio minuscolo impallidiva di fronte ad altre realtà cittadine, come ad esempio tutti i grandi concerti organizzati da Fabio Sargentini per ospitare a Roma i grandi minimalisti americani, da Terry Riley a LaMonte Young.
Non è un caso che il locale, già nel 1976, a 2 anni dall’apertura chiude i battenti, all’improvviso. Nessun evento per annunciarne la fine, nessun saluto. E resta una storia dimenticata, ancora un po’ fumosa, che sono felice risorga in questo racconto.
Una porta aperta nello spazio
Poco prima che iniziassi a mettere giù questo articolo, pensai di risentire Mino per un’ultima volta, così da tirare le somme della mia ricerca e confrontarmi con lui su alcuni passaggi dubbi.
Ci vediamo in un rumoroso bar di quartiere, dove trovo ad ad accogliermi anche Terra, che conosco di persona per la prima volta. Noto una certa intensa curiosità nei suoi occhi, di quelli che solitamente trovi immacolata solo nei bambini e che quasi mi impressiona vedere negli occhi di un adulto. Stanno cenando mentre io ho preso solo qualcosa da bere, e cerco di chiedergli il minimo indispensabile per non disturbarli troppo. Tra una mia domanda e l’altra, Terra solleva alcuni dubbi. Ha paura che il raccontare la storia del locale, la sua vita breve e le sue attività ormai dimenticate possa dipingere come una storia di sconfitta, la novella di chi a un certo punto semplicemente si arrende, scompare e viene dimenticato. Io la rassicuro: so benissimo che l’Albergo non è mai morto, e non è mai stato solamente un locale né tantomeno solamente una band.
L’Albergo Intergalattico Spaziale è il supporto alle manifestazioni e alle cause del partito dei Radicali durante gli anni ‘70, i lavori di Terra come attrice al cinema e al teatro (basti segnalare Il Gabbiano con la regia di Gabriele Lavia), la collaborazione di Mino con il compositore Saro Cosentino per TV Dinner o all’interno di altri progetti come Ilcompleannodimary o Devogue, l’associazione da loro fondata nel 1993 “Orsa Minore Arte e Cultura”, con cui hanno prodotto e musicato spettacoli teatrali come Un angelo di nome Rimbaud o La morte di Irma Bandiera. Sono Albergo Intergalattico Spaziale i due dischi prodotti verso la fine degli anni 2000, Angeli di solitudine nel 2009 e Cammino sotto il mare del 2011, a cui si aggiungerà probabilmente, entro la fine di quest’anno, anche un nuovissimo album al momento in lavorazione. Dischi composti con le stesso approccio con cui hanno sempre vissuto tutta la loro arte: sperimentando e improvvisando.
Dopotutto, come mi dice Terra: «quando improvvisi non fai finta, non ripeti, non hai un repertorio e passi la vita mettendo in gioco te stesso e la tua arte». Per quanto mi riguarda, il metaformismo dell Albergo Intergalattico Spaziale per me è la loro parte più interessante. Possiamo immaginarli come un oggetto non identificato che vaga nello spazio. A volte è visibile, a volte sfocato. A volte cambia aspetto, a volte ritorna ciò che ricordavamo. È evanescente, ma è sempre lì.
Questo articolo trae le sue fonti dalle voci dei suoi protagonisti, ma alcune pagine di “Giorni strani, giorni pop” di Luigi Pescetelli (I Libri del Mondo Capellone Ed., 2017) sono state utilissime per ordinare alcuni avvenimenti.
Un ringraziamento speciale va a Roberto Giannotti e Vincenzo Zitello.
Articolo a cura di Vincenzo “Notta” Riccardi con la collaborazione della redazione.
Grazie come sempre per il supporto che ci date leggendoci e spargendo la voce di questo piccolo prodotto contro culturale. Come vedete cerchiamo di restituire qualcosa anche della storia dei luoghi, quelli periferici, ai bordi dei processi creativi e della memoria. Il prossimo appuntamento è con la nuova puntata di PRESS PLAY, in onda domani alle 16:00 su Fango Radio.
Meraviglia. Tanta stima per il tuo lavoro!