Alice e Davide Sinigaglia sono due artisti e fratelli nati a La Spezia. Essendo cresciuti nella musica e avendo scoperto presto un ascendente per il teatro, sono piuttosto allergici a etichette e confini semantici. Alice è regista e attrice nonché curatrice di un festival di teatro emergente quest’anno arrivato alla sua seconda edizione (“Tutta la vita davanti – festival di teatro per vecchi del futuro”, ospitato all’interno del programma di Fuori Luogo al Dialma di La Spezia). La sua carriera come quella di Davide è strettamente legata alla compagnia de Gli Scarti (nel 2016 entrambi partecipano all’Ubu Rex di Enrico Casale). Nel 2021 sono finalisti al Premio Scenario con Il Canto del Bidone. Il 23 febbraio a Carrozzerie_n.o.t (Roma) ha debuttato Concerto fetido su quattro zampe. Questo è il nostro secondo articolo su artisti che attraversano i linguaggi della musica e della performance, il primo lo potete recuperare a questo link.
Il vostro spettacolo Concerto fetido su quattro zampe è nato prima come album o come spettacolo teatrale?
Alice: In un certo senso è tutto nato assieme, ma con il nome Concerto fetido su quattro zampe [d’ora in poi: CFSQZ, ndR] è nato prima lo spettacolo. Ci fu bisogno di un evento, una cosa che accadde a tutti e due e che ci diede l'occasione di scrivere qualcosa per sfogarci. Nacque così I Lupi, che poi si sarebbe chiamato CFSQZ, scritto in tre giorni sulle parole che ci eravamo detti quella notte, e con quello studio siamo andati in sala prove su richiesta di Andrea Cerri [direttore artistico del festival Fuori Luogo a La Spezia e dell’associazione culturale Gli Scarti, ndR]. Ci aveva chiesto giusto venti minuti di presentazione, per cui ci siamo detti: «Vabbè, testiamola questa nuova idea!». Dopo circa tre minuti di testo recitato ci era venuto di attaccarci subito dopo un vecchio pezzo di Davide, ed è per questo che dico che è nato prima lo spettacolo. La musica Davide l’aveva sì scritta prima, ma non per lo spettacolo. Erano anni che gli ripetevo: «Pubblica! Pubblica! Pubblica!». Per me quelle canzoni erano ormai repertorio, nel senso che le cantavamo sempre anche a casa. Per i testi alcune cose erano già perfette così, raccontavano della nostra vita, del nostro quotidiano, di La Spezia, altre invece sono state modificate per rimarcare il tema dello spettacolo sulla relazione “uomo”-“natura”.
Davide: Cambiavamo qualche strofa, a volte rigirando il soggetto della canzone, per esempio, dall’uomo all’animale, sottolineando con questo gioco lo scambio di prospettiva.
Alice: E comunque le metriche restavano sempre le stesse, proprio perché non è stato un lavoro di collage che si è basato sul significante, ma sempre sul suono. Per noi l’importante, proprio a livello teatrale, era che suonasse così.
Davide: Per me è stato importante tenere quegli elementi che rappresentavano un carattere adolescenziale e riprenderli adesso, con un’età leggermente più avanzata, e alcune volte complicare un pensiero che a sedici anni era un po’ più semplice. Ho voluto rivivere quella rabbia, quel fastidio, che era riemerso così violentemente quella notte che con Alice ci sfogammo assieme. In questo senso, CFSQZ è stato per noi davvero un mezzo per vomitare insieme un represso personale, sociale e familiare.
Che rapporto c’è tra il nichilismo dei vostri testi e la dimensione ludica dello spettacolo e del vostro sound?
Alice: Non è qualcosa che facciamo consapevolmente. La musica per noi è sempre stata ludica, gioiosa: i nostri genitori sono musicisti e ci hanno insegnato a suonare e cantare, non c’è niente di meglio al mondo, è divertente, è gioia. Siamo cresciuti con una musica melodica, armonica, corale. Ti basti pensare che, fin dall’età di nove anni, facevamo parte di un gruppo di percussioni brasiliane fondato da nostro padre! Oltretutto, casa dei nostri genitori era come una comunità, un crocevia per un sacco di gente che, in una città come La Spezia dove non c’è mai nulla da fare, si riuniva sotto al nostro tetto anche per cantare tutti insieme. Poi, a un certo punto, per noi qualcosa si è rotto. Quella comunità si è sfaldata o almeno avevamo l’impressione che non esistesse più. E da lì il nichilismo. In una grande famiglia protestante come la nostra ci sentivamo come in un branco, ci vedevamo diversi dagli altri che erano tutti figli di una certa educazione, che (in modo riduttivo e banalizzante) potremmo chiamare borghese, che sentivamo necessario contestare. Adesso invece da quando facciamo lo spettacolo non sento più questa divisione, non ho più l’urgenza del conflitto.

In CFSQZ si percepisce una forma di avversione ma sembra più di natura politica che personale. Mi stupisce molto infatti questa dimensione del «branco» di cui parli, è una chiave di lettura che non emerge dallo spettacolo in sé.
Alice: È che non volevamo essere biografici, avevamo solo bisogno di dire: «Vaffanculo a tutti voi». Non vorrei che passasse il messaggio che i nostri siano spettacoli pessimisti, non è così, ma sicuramente quella che ho raccontato è stata un’esperienza che abbiamo vissuto molto male. Non è un caso che tra le nostre reference a livello musicale ci fossero i DSA Commando, un gruppo ligure mega nichilista, che però non possiedono una dimensione ludica né melodica, sono tutta cattiveria. Siamo cani di provincia tre le strade lasciate vuote dai turisti. Avevamo da un lato il nostro branco fighissimo, cene con gruppi di 50 persone più grandi di noi, tutti artisti con cui suonavamo tutto il tempo, come un piccolo mondo separato dal resto. Ma dall’altro c’era una società di piccole educazioni, piccole virtù come le chiama Natalia Ginzburg: il risparmio, la pulizia, le buone maniere. Tutti valori a cui ci opponevamo non perché volevamo fare i bambini ribelli, ma perché non ci sono mai state insegnate. Abbiamo vissuto la gioia di essere selvaggi, lerci, sporchi e solo molto dopo, verso la prima elementare, siamo stati esposti alle regole di buon costume. Ricordo ancora le maestre che mi sgridavano perché mangiavo la minestra come una bestia!
Davide: Questo odio verso il borghese di cui parla Alice io l’ho sentito molto forte. Non sono mai riuscito a capire come infilarmi in un contesto sociale come quello della scuola o del conservatorio dove ho studiato per dieci anni, ma neanche in quello dei bar o degli apertivi. Gli unici contesti in cui mi sentivo a mio agio erano la comunità formata dai miei genitori e il coro, dove ho conosciuto la mia fidanzata e tutti i miei amici. Era la solitudine adolescenziale che sfogavo in musica nichilista come i DSA Commando, Salmo, Fabri Fibra, per poi appassionarmi alla musica anni ’60, ’70 e ’80, in particolare al prog. Questa ricerca di un branco è sempre stato un tema chiave per me, ed è quindi anche stato molto facile riadattare i miei vecchi pezzi per lo spettacolo: l’animale ero io, e non ero riuscito a crearmi un nuovo branco da solo perché ho tutta la comodità di un avere un porto sicuro dove stare.
Durante la nostra intervista a Virginia Quaranta, in arte Bebawinigi, è emerso il tema dell’inutilità dell’artista nella società. Anche voi agite nella consapevolezza di una fattuale inutilità oppure credete che l’azione artistica possa in qualche modo sovvertire questa tendenza?
Alice: È un argomento che mi suscita tanto dolore. Mi sono laureata in Scienze Politiche e avrei voluto fare la giornalista, anche perché in famiglia ero l’unica che a un certo punto non aveva più nessuna voglia di suonare. Ho dovuto poi realizzare che l’arte è quello che sono, che sono molto più utile come artista che come giornalista, che la mia vera dimensione è scrivere per il teatro e stare sul palco. Infine siamo umani, e devi fare i conti col poco che puoi fare. Penso agli orrori che accadono in questo momento nel mondo e mi dico: «Quanto vorrei mettere le mani nelle cose!». Non credo che l’arte non possa farlo, e credo che sebbene sia difficile sopravvivere in questo sistema la priorità debba essere la questione sociale. Mi piace credere che, nel suo piccolo, CFSQZ riesca a mettere al centro problematiche sociali, mi è capitato di vedere quelle persone che negli anni si erano allontanate da noi abbandonarsi alle lacrime dopo la fine dello spettacolo. Magari il mio lavoro intercetta molte meno persone di quanta ne potrebbe intercettare il lavoro di un magistrato, forse no, ma rimane il fatto che vedo nel mio spettacolo una spinta politica. Credo che in un contesto in cui l’arte non riesce più a cambiare il mondo, una soluzione sia quella di concentrarsi su obiettivi molto piccoli e specifici. In fondo se faccio una larga critica al capitalismo non sto davvero pungendo nessuno, se invece prendo in esame la produzione di quella specifica marca che produce fesa di tacchino, allora forse qualche meccanismo lo starò mettendo in atto, no? Finché riuscirò a fare qualcosa del genere non penserò che la mia arte sia inutile.
Davide: Fino ai 22 anni ho studiato musica da autodidatta, 6 o 7 ore al giorno senza fare altro di solito sulla marimba o su un vibrafono. Dopo aver visto uno spettacolo di teatro di mia sorella con Chiara Lucenti, mi sono catapultato nel mondo teatrale. Il teatro ha cambiato molto la mia percezione dell’arte: se prima mi sentivo solo un mezzo per l’espressione di qualcun altro, un esecutore di una partitura in cui io non ho spazio per esprimere la mia visione, grazie a mia sorella e al teatro ho riscoperto la mia arte come mezzo creativo e politico, mi sono sentito di portarla col mio corpo e con la mia persona piuttosto che attraverso una rigida esecuzione. Quindi si, forse da una parte il mio lato nichilista mi dice che l’arte non cambierà niente, ma dall’altro lato se credessi davvero a ciò non troverei l’energia per scrivere o per fare gli spettacoli. Ho bisogno di un senso di rivalsa che mi spinga a voler trasformare qualcosa di negativo in qualcosa di positivo, poi non importa se ci riesco o no.
L’utilizzo del rap nel CFSQZ è sintomo di un’urgenza o è frutto di qualcosa di incidentale? Come ponete il rap rispetto ad una scena di appartenenza che, almeno in Italia, mal digerisce la sperimentazione?
Davide: Il rap di per sé è una forma di sperimentazione sul canone della canzone. Penso ai Bestie Boys che hanno semplicemente iniziato esplorando l’uso del declamato, e solo poi si sono accorti di essere degli MCs e hanno iniziato ad etichettarsi come rap. In Italia il rap è sempre stato un genere di nicchia fino al 2014, dove è poi esploso in maniera incredibile ed è diventato un punto di riferimento e un modo per esprimersi per me come per tanti ragazzi, soprattutto per quel “Voi”, quel nemico immaginario presente in tanto hip-hop che è un puro urlo di ribellione adolescenziale. C’è da dire che il rap in CFSQZ non è mai puro: ci sono tracce più classiche come Malpelo col suo glockenspiel e la rappata alla DSA Commando, oppure tracce come Non Fare Il Matto col ritornello pop di Alice, quasi fossimo Thasup e Mara Sattei, o Luoghi Comuni, che gioca tra il reggae e il pop. Per me fare questo è anche e soprattutto un esercizio di stile, un comporre magari con poche e confuse suggestioni musicali ma con tantissime idee nella testa. La musica doveva comunque seguire una contesto teatrale e ancorarsi al discorso, piuttosto che uno musicale dove magari semplicemente ti impacchetto un disco con una certa coesione sonora.
Alice: C’è un discorso che emerge dallo spettacolo di natura strettamente drammaturgica (ed è forse il mio carattere più ludico) e poi c’è un’anima musicale che lo attraversa con un messaggio più nichilista. E come ogni discorso c’è la parte in cui ci incazziamo, quella in cui facciamo pace e quella in cui tutto diventa una cazzata. Non importa tanto lo stile, ma che quel discorso, quel “concept” per usare un termine discografico, sia sempre al centro del processo creativo.
Davide: Che poi il rap intercetta anche un certo gusto che oggi, per fortuna, è sempre più trasversale. Il rap passa alle radio, a Sanremo, è diventato un linguaggio accessibile quasi per chiunque.
Ascoltando con attenzione l’album si notano una serie di riferimenti piuttosto datati, come: «Parliamo alla nazione in cui si ride per De Sica e i rutti» oppure «Maledetta la gioventù / La TV non la guardo più», immagini che provengono da un’epoca analogica ormai passata. Da dove vengono questi riferimenti, sono magari parte di quell’immaginario che legate a quella società borghese fuori dal vostro branco?
Davide: Quando ho scritto questa cosa di De Sica ero in bagno a fare la cacca. Mi è venuta sfogliando una rivista che mi ha ricordato le medie, quando i miei compagni mi facevano sentire quasi obbligato ad andare assieme a guardare i film di Natale con De Sica. Alla fine ci andavo, anche perché altrimenti avrei passato quel giorno libero dalla scuola a non fare niente. In quel momento sul cesso ricordai nitidamente quella distanza che sentivo con i miei compagni, frutto della volontà di volersi mettere su un piedistallo intellettuale e umano. Sono parole, luoghi, persone che con me risuonano e riesco quindi a dargli un senso, magari non immediato per chi le ascolta, ma meno banali forse di altri riferimenti che sarebbero sicuramente suonati forzati.
Nel rap esiste questo luogo comune per cui tutte le province alla fine sono uguali, legate da un filo rosso di disagio, isolamento e ineluttabilità. Portando in giro CFSQZ, avete trovato riscontro in questo stereotipo oppure avete notato delle differenze, anche semplicemente nelle reazioni del pubblico?
Alice: Finora la zona che maggiormente ha recepito lo spettacolo è quella romana. Ci siamo già tornati cinque volte a Roma e ci torneremo di nuovo a settembre. Lì tanta gente si prende molto sul serio sui temi che trattiamo in CFSQZ, la sentono come un qualcosa di borgata e riescono a coglierne l'autoironia. Città come Asti, Bergamo, sono province che intercettano qualcosa di La Spezia perché sono borghesi, un po’ fashion, un po’ vecchie. I milanesi invece ci guardano come fossimo alieni. Eppure una volta per il compleanno di una nostra amica abbiamo proposto il lavoro al pubblico di Roma Nord e non ci hanno affatto capiti. Appena usciamo dalla periferia non ci capiscono, ci guardano come se fossimo delle povere anime sofferenti e tu vorresti dire: «Adesso però non esageriamo!».
Davide: [ride] In effetti lì ci siamo sentiti come animali allo zoo e non è stato tanto piacevole!
Alice: Mentre ero dietro la batteria mi sentivo guardata come una bestia. Tanto per definire come sentiamo la nostra provincia, basti sapere che la Liguria è la regione più vecchia d’Europa. Il mare è freddo, l’inverno è lungo e deprimente e a La Spezia in particolare non c’è nulla se non a Giugno, quando la città si riempie di turisti americani e diventa un delirio a cielo aperto. Che poi è solamente un turismo di transito, qui non c’è niente da fare, niente da vedere, nulla di nulla di nulla di nulla. Non abbiamo Napoli accanto, per dire, persino Genova è a un’ora e mezzo di strada. Sebbene sia vero che tutte le province un po’ si assomigliano, perché ogni provincia magari ha la stessa desolazione, queste però sono colorate in maniera diversa. La nostra è grigio blu. Non c’è davvero niente, abbiamo due circoli culturali di cui uno chiuso. Fra l’altro i nostri genitori quando avevano la nostra età fecero uno spettacolo su La Spezia, sapete come lo chiamarono? La Spenta.
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Ovviamente non salteremo l’uscita di agosto. A presto!